Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 21 dicembre 2005, n. 28269
RITENUTO IN FATTO
1.
Con la sentenza sopra specificata, la Corte di appello di Torino, giudicando
fondata l'impugnazione proposta dal XX - Sindacato intercategoriale dei
comitati di base - contro la decisione del Tribunale della stessa sede, ha
confermato il decreto in data 27 aprile 1999 del Pretore di Torino, con il
quale, ritenuta l'antisindacalità del comportamento della Xx s.p.a., consistito
nel rifiutare il pagamento al sindacato, ricorrente ex art. 28 l. 300/1970,
delle quote di retribuzione cedutegli dai lavoratori aderenti, ne aveva
ordinato la cessazione e la rimozione degli effetti (mediante il pagamento dei
crediti scaduti), con affissione del dispositivo nelle bacheche per trenta
giorni.
2. È stato respinto, invece, l'appello incidentale della Xx contro la
statuizione di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto la legittimazione
del XX a proporre ricorso per la repressione del comportamento antisindacale,
con la motivazione che era stata fornita la prova della dimensione nazionale
del sindacato, in relazione alla presenza e allo svolgimento di attività in
gran parte del territorio, nonché della sua natura, in base allo statuto, di
associazione sindacale nazionale con articolazioni periferiche, e non di
confederazione di diverse organizzazioni di categoria.
3. Sulle altre questioni, le argomentazioni che sostengono la decisione sono:
a) scomparso dall'ordinamento l'obbligo legale del datore di lavoro di
effettuare le trattenute dei contributi sindacali e di curarne il versamento,
l'obbligo medesimo può legittimamente derivare da fattispecie negoziali; b) nel
caso concreto era stata realizzata, con accordi tra ciascun lavoratore e il
sindacato, la cessione di una parte del credito retributivo, e gli effetti di
collaborazione del datore di lavoro derivavano dagli artt. 1260 ss. c.c., come
pure gli oneri aggiuntivi erano posti a suo carico dal disposto dell'art. 1196
dello stesso codice, oneri, peraltro, molto modesti, atteso che era in atto
nell'azienda la procedura per riscuotere le quote associative relative ai
sindacati firmatari del contratto collettivo di lavoro; c) il rifiuto del
datore di lavoro, debitore ceduto, di adempiere nei confronti del sindacato,
incideva fortemente su di un profilo assai rilevante dell'attività e, perciò,
stante l'atipicità della condotta antisindacale e la sua oggettiva lesività,
doveva essere represso con lo strumento apprestato dall'art. 28 l. 300/1970.
4. La cassazione della sentenza è domandata dalla Xx s.p.a. con ricorso per tre
motivi, ulteriormente precisati con memoria depositata in relazione all'udienza
della Sezione lavoro della Corte fissata per il 23 novembre 2004; ha resistito
con controricorso il Sindacato intercategoriale dei comitati di base.
5. Rilevato che la questione dell'antisindacalità del comportamento del datore
di lavoro, consistito nel rifiuto di pagare al sindacato le quote di
retribuzione cedute dai lavoratori, era già stata decisa in senso difforme da
sentenze della Sezione lavoro, il Primo Presidente ha disposto che la Corte
pronunci a Sezioni unite, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. In relazione
all'udienza fissata, la Xx s.p.a. ha depositato ulteriore memoria ai sensi
dell'art. 378 c.p.c.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.
Il primo motivo del ricorso, denunciando violazione dell'art. 28 della l.
300/1970, nonché erronea e insufficiente motivazione, domanda la cassazione
della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimato il sindacato a
proporre ricorso per la repressione della condotta antisindacale, cassazione
che sarebbe assorbente di ogni altra questione.
1.1. Si sostiene che la Corte di Torino ha trascurato di considerare la caratteristica,
pure accertata in fatto, del raggiungimento della dimensione nazionale solo
come risultato della coalizione di più comitati di base, relativi alle più
disparate categorie di lavoratori, caratteristica che avrebbe richiesto la
verifica specifica dell'interesse concreto ad agire della base locale,
collocabile entro la dimensione nazionale, a tutela dei lavoratori
metalmeccanici; in ogni caso, se in senso stretto non si era in presenza di una
confederazione, la sostanza del fenomeno era tuttavia quella di un'associazione
di secondo livello, siccome lo statuto, esaminato dal giudice del merito,
riconosceva proprio ai comitati di base il ruolo operativo fondamentale.
2. Il motivo non può trovare accoglimento.
Come già avvertito, il contrasto di giurisprudenza che ha determinato
l'assegnazione della causa alle Sezioni unite non riguarda la questione oggetto
del motivo di ricorso in esame; al contrario, su tale questione gli
orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione
attiva di organismi locali di sindacati non maggiormente rappresentativi sul
piano nazionale, né intercategoriali o aderenti a confederazioni, essendo
invece determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche
monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale
diffusione nel senso che bastino svolgimento di effettiva azione sindacale (non
su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cassazione 10114/1990;
5765/2002; 11833/2002; 3917/2004; 10616/2004; 269/2005). Questi orientamenti
meritano di essere confermati, non risultando efficacemente contestati dalla
ricorrente.
2.1. È opinione condivisa che il disposto dell'art. 28 Statuto dei lavoratori,
con l'attribuire la legittimazione ad agire in giudizio, «agli organismi locali
delle associazioni sindacali nazionali, che vi abbiano interesse», detta un
criterio di selezione basato sul necessario carattere nazionale delle
organizzazioni, escludendo la legittimazione sia dei singoli lavoratori, sia di
forme di autotutela collettiva non organizzate su base nazionale.
Al riguardo, la Corte costituzionale, in numerose decisioni (cfr. Corte
costituzionale 54/1974, 334/1988 e 89/1995), dopo avere premesso che il
legislatore ha attribuito a soggetti qualificati uno strumento di azione
giudiziaria dotato di particolare efficacia, ha poi evidenziato come risulti
operata una scelta - degli organismi e del livello di rappresentatività -
ragionevole, perché volta a privilegiare «organizzazioni responsabili che
abbiano un'effettiva rappresentatività» (misurata sulla dimensione nazionale),
e che «possano operare consapevolmente delle scelte concrete valutando - in
vista di interessi di categorie lavorative e non limitandosi a casi isolati e
alla protezione di interessi soggettivi di singoli - l'opportunità di ricorrere
alla speciale procedura». In particolare, il giudice delle leggi ha precisato
come l'art. 28 sia espressione della garanzia del libero sviluppo di "una
normale dialettica sindacale" perché il suo impiego presuppone una
dimensione organizzativa - quella nazionale - che, per non essere legata ad una
aggregazione a livello confederale intercategoriale, né alla stipulazione di
contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle
organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie (si veda,
in particolare Corte costituzionale 334/1988, cit.)
L'accesso alla speciale tutela per la repressione della condotta antisindacale,
quindi, è basata su di un criterio di selezione che nulla ha a che fare con
quello operante ai fini della costituzione delle rappresentanze sindacali
aziendali (art. 19 Statuto dei lavoratori, nel testo determinato dall'esito del
referendum indetto con d.P.R. 5 aprile 1995), ovvero con la nozione di
organizzazione sindacale dotata di «maggiore rappresentatività» (cfr., al
riguardo, Cassazione 10114/1990).
2.2. Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che
non abbiano limitato ad una sola, predeterminata, categoria professionale il
fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i
lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere
positiva.
In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno
contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità
organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di
un'unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e
tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l'operare di scelte, nell'azione
sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiore
probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori.
D'altra parte, nell'attuale configurazione dell'ordinamento non sussiste -
stante anche la mancata attuazione dell'art. 39, commi 2 ss., Cost. - una
predeterminazione delle singole categorie di imprese, in relazione alle quali
debbano essere stipulati i contratti collettivi (cfr. Cassazione, Sezioni
unite, 2665/1997) e, più in generale, essere intrattenute le cosiddette
relazioni industriali.
Ne consegue che il principio costituzionale consacrato dall'art. 39 Cost. rende
insindacabile l'eventuale intento di associazioni di nuova costituzione di
promuovere una rappresentanza di interessi che non segua le linee organizzative
della rappresentanza dei lavoratori conformate dalle categorie
2.3. Né l'ipotesi del sindacato "non categoriale" o
"intercategoriale", è riconducibile al modulo della confederazione
sindacale.
Quest'ultima, infatti, non solo associa organizzazioni sindacati di varie
categorie, ma si caratterizza anche per il fatto di lasciare a queste ultime la
tutela e la rappresentanza dei lavoratori nei confronti delle singole imprese,
nonché l'attività concorrenziale nei confronti delle singole contrapposte
organizzazioni di categoria. Ed è questa la ragione precipua per cui le
confederazioni sono carenti di legittimazione a ricorrere ex art. 28 Statuto
dei lavoratori, non diversamente dai sindacati di una diversa categoria: si
configura, infatti, il difetto del requisito dell'interesse alla repressione
della condotta sindacale, menzionato da detta norma (cfr. Cassazione 7368/1997,
e 6058/1998, secondo cui sono privi di legittimazione ex art. 28 gli organismi
locali delle confederazioni sindacali, in quanto non incardinati in un
sindacato di categoria nazionale e privi di interesse, non rientrando nei loro
compiti istituzionali la tutela di una specifica categoria).
2.4. Il carattere intercategoriale dell'associazione sindacale, tuttavia,
qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento dell'adeguata
diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio,
ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo
cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 Statuto dei lavoratori,
è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di
rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel
territorio nazionale, là dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato
stesso (così Cassazione 7368/1997, cit.; cfr. anche Cassazione 10114/1990,
cit., che parla di requisito della diffusione del sindacato sul territorio
nazionale), in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di
un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più
elevati di quelli richiesti a un'associazione di categoria. Tuttavia, in sede
applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo
cui la rappresentatività richiesta dall'art. 28 Statuto dei lavoratori
costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di
quello della maggiore rappresentatività; e comunque, vi è stato al riguardo un
accertamento del giudice del merito non specificamente censurato.
2.5. Come già osservato, ai fini della legittimazione di un organismo sindacale
locale, è necessario che lo stesso sia effettivamente un'articolazione di
associazione nazionale.
Affinché si possa ritenere sussistente, al di là dei variabili moduli
organizzativi, un rapporto di tale genere, l'associazione nazionale deve
svolgere effettivamente un'azione sindacale per la promozione degli interessi
dei lavoratori in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l'azione dei
singoli organismi territoriali. In altre parole, non può rilevare qualunque
associazione tra organismi sindacali meramente locali, ancorché in qualche modo
funzionale al perseguimento dei fini sindacali dei singoli gruppi, perché in
questo caso sarebbe chiaramente eluso il requisito dell'esistenza di un'associazione
sindacale adeguatamente rappresentativa in quanto nazionale, e non si
verificherebbero i presupposti per quella selezione degli interessi garantita
da un'organizzazione non meramente locale.
L'individuazione degli organismi locali delle associazioni nazionali
legittimati ad agire per il procedimento di repressione della condotta
antisindacale deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni stesse,
dovendosi fare riferimento alle strutture che detti statuti ritengono
maggiormente idonei alla tutela degli interessi locali.
2.6. In base al complesso delle considerazioni svolte, non sono fondate le
critiche alla sentenza impugnata relative alla parte in cui ha riconosciuto - a
seguito della lettura dello Statuto del XX e di un puntuale accertamento di
fatto in ordine alla diffusione territoriale dell'azione sindacale -
all'organizzazione ricorrente la natura di "organismo locale di
associazione sindacale nazionale", escludendo la presenza di associazione
di secondo livello rispetto ad altre associazioni (i comitati di base).
3. In ordine logico, merita esame prioritario il terzo motivo di ricorso, con
il quale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1260 ss. c.c.
e 39, comma 1, Cost., nonché insufficiente ed erronea motivazione.
3.1. La società ricorrente sostiene l'inutilizzabilità del negozio di cessione
del credito, che non richiede il concorso della volontà del debitore ceduto, in
relazione a fattispecie di cessioni generalizzate di piccole parti di crediti
futuri e con previsione di un termine di efficacia (nel caso, triennale): a)
per il notevole aggravamento degli oneri e dei rischi del debitore, non
certamente resi marginali per l'operatività in azienda delle deleghe sindacali
previste dal c.c.n.l., secondo un sistema nettamente differenziato; b) per
l'incompatibilità tra negozio traslativo del credito e revocabilità
dell'adesione e contribuzione al sindacato; c) per la modificazione dei
contenuti dell'obbligazione, diventando creditore della retribuzione un soggetto
diverso dal lavoratore e mutando il luogo dell'adempimento; d) per la nullità
derivante da frode alla legge dell'operazione.
4. La Corte, a sezioni unite, giudica infondato questo motivo di ricorso, in
tali sensi componendo il contrasto tra le sentenze che hanno in precedenza
deciso la questione, ritenendo alcune non utilizzabile l'istituto della
cessione del credito per versare al sindacato le quote associative (Cassazione
1968/2004: 10616/2004), fornendo altre risposta di segno affermativo e
ritenendo altresì antisindacale il rifiuto di pagamento opposto dal datore di
lavoro (Cassazione 3917/2004; 14032/2004).
4.1. Va precisato, preliminarmente, che alla fattispecie va applicato il regime
normativo vigente fino al 31 dicembre 2004, non rilevando la modificazione del
testo dell'art. 1 del d.P.R. 182/1950 (Insequestrabilità, impignorabilità e
incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti), operata
dall'art. 1, comma 137, della l. 311/2004, mediante l'aggiunta, nel primo
comma, delle parole «nonché le aziende private», rendendo cosi incedibili,
fuori dei casi consentiti dal medesimo testo normativo (come modificato
dall'art. 13-bis del d.l. 35/2005, convertito in l. 80/2005) anche i compensi
erogati dai privati datori di lavoro ai dipendenti.
Nel regime precedente, infatti, non si dubitava, stante la regola generale
della cedibilità dei crediti, posta dall'art. 1260 c.c., esclusi soltanto i
crediti di carattere strettamente personale e quelli il cui trasferimento è
vietato dalla legge, dell'ammissibilità della cessione dei crediti retributivi
dei lavoratori del settore privato, non trovando per essi applicazione l'art. 1
del d.P.R. 182/1950 (vedi Cassazione 4930/2003).
4.2. Neppure si è posto in dubbio che un ostacolo alla cessione della retribuzione
potesse derivare dal carattere parziale e futuro del credito ceduto. La
cessione può certamente avere ad oggetto solo una parte del credito, come si
argomenta dal secondo comma dell'art. 1262 c.c., ed anche crediti futuri, com'è
pacifico in giurisprudenza (Cassazione 8497/1994, 5947/1999, 7162/2002).
4.3. Va senz'altro disattesa la tesi del negozio in frode alla legge, come
hanno ritenuto, del resto, tutte le sentenze che si sono occupate della
questione.
Si è correttamente osservato che l'abrogazione referendaria dell'art. 26, commi
2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto"
nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte
costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995), ha
"restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata
dalla legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché
resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti
negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la
quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si
attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che
gli sono propri, ma anche effetti propositivi. Ed è in effetti questa, nella
sostanza, la tesi della società ricorrente: l'esito referendario avrebbe
introdotto nell'ordinamento una regola nuova, in base alla quale, lo scopo del
versamento diretto al sindacato delle quote associative potrebbe essere
realizzato esclusivamente mediante istituti che richiedano il consenso del
datore di lavoro. La tesi, come già posto in evidenza, è in contrasto con
l'essenza esclusivamente abrogativa dell'istituto e con il risultato perseguito
con l'indizione del referendum, da individuare esclusivamente dell'eliminazione
dell'obbligo ex lege a carico del datore di lavoro.
4.4. Venendo all'oggetto specifico del contrasto di giurisprudenza, l'istituto
della "cessione del credito" è stato ritenuto non praticabile per
raggiungere il suddetto scopo fondamentalmente per due ragioni.
La prima, contenuta nella sentenza della Sezione lavoro 1968/2004, è che la
cessione del credito, in generale, non costituisce un autonomo tipo negoziale,
coincidendo con lo schema negoziale di volta in volta idoneo ad operare e a
giustificare il trasferimento; l'ostacolo ad impiegare l'istituto per il
pagamento della quota associativa al sindacato sarebbe da ravvisare
nell'incompatibilità strutturale tra l'impossibilità di una revoca immediata
senza il consenso del sindacato beneficiario (propria dell'istituto della
cessione del credito, conformemente alla sua natura che la connota come una
forma di alienazione di diritti) e la revocabilità immediata dell'atto
volontario di contribuzione sindacale obbligatoriamente discendente dal
principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost.
4.4.1. Le Sezioni unite ritengono l'argomentazione non condivisibile.
La specifica disciplina relativa alla cessione detta si uno schema unitario,
che viene ad applicarsi a tutte le fattispecie traslative del credito, ma
senz'altro incompleto: essa si pone quale correttivo e/o integrazione
predisposti, in contemplazione del particolare oggetto, nei confronti dei
singoli negozi causali traslativi. Nel caso in esame, lo schema si applica ad
una cessione per pagamento (solvendi causa), ed infatti il cedente
(lavoratore), in luogo di corrispondere al suo creditore (associazione
sindacale) la prestazione dovuta (quota sindacale), gli cede in pagamento parte
del credito (futuro) che egli ha nei confronti del debitore ceduto (datore di
lavoro).
Ne discende che la causa del contratto di cessione si determina mediante il
collegamento con il negozio al quale è funzionalmente preordinata, assumendo,
quindi, nel caso, una funzione di assolvimento degli obblighi nascenti dal
rapporto di durata originato dall'adesione associativa. Di conseguenza, se
viene meno il rapporto sottostante, ciò provoca la caducazione della funzione
del negozio di cessione, determinandone l'inefficacia.
In conclusione, la cessione ha funzione di pagamento della quota sindacale e il
pagamento è dovuto dal lavoratore soltanto finché ed in quanto aderisce al
sindacato, in forza di un contratto dal quale il recesso ad nutum è garantito
dai principi inderogabili di tutela della libertà sindacale del singolo
lavoratore. I pagamenti eventualmente eseguiti dal datore di lavoro
successivamente alla "revoca della delega" (che non è revoca della
cessione, come tale inconcepibile, ma cessazione della sua causa per
sopravvenuta inesistenza nel collegamento con il negozio di base) sono
effettuati a soggetto diverso dal creditore ed avranno effetto liberatorio
soltanto se il debitore non ha avuto conoscenza della cosiddetta
"revoca" (art. 1189 c.c.).
4.4.2. La sentenza 1968/2004 si fonda altresì sull'impossibilità di utilizzare
lo strumento della cessione del credito perché produrrebbe un aggravamento
della posizione del debitore. L'argomento è ripreso e sviluppato dalla sentenza
10616/2004, la quale, anche mediante il richiamo del principio di correttezza e
buona fede, in apparenza lo eleva ad unica ratio decidendi. Si diceva in
apparenza, perché il complesso delle considerazioni svolte nella motivazione
suscita l'impressione che rilievo precipuo sia conferito all'esito
referendario, insistendosi nell'osservare che ammettere l'istituto della
cessione del credito finirebbe, da una parte, per vanificare l'effetto della
soppressione dell'obbligo ex lege a carico del datore di lavoro, dall'altra,
per annullare ogni differenza tra la condizione dei sindacati firmatari dei
contratti collettivi e gli altri non firmatari.
Ma si è già osservato (n. 4.1) che questi argomenti non possono influenzare il
tema della validità ed efficacia del contratto di cessione del credito
retributivo al sindacato, per adempiere agli obblighi associativi, se non
ipotizzandone la nullità per frode alla legge, e, quindi, che l'esito
referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del
divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo
consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già detto,
nella sede richiamata, come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio
dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un
obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli strumenti
negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento.
4.4.3. Sgomberato il campo da ogni indebito condizionamento dell'indagine, si
deve ricordare come si ammetta comunemente che, in caso di cessione del
credito, l'obbligazione del debitore possa subire alcune modifiche (tra queste
quella, non certo marginale, del luogo di adempimento). Ma il limite della non
esigibilità di una modificazione eccessivamente gravosa, da identificare in
concreto con l'applicazione del precetto di buona fede e correttezza (art. 1175
c.c.), non riguarda la validità e l'efficacia del contratto di cessione del
credito, ma soltanto il piano dell'adempimento, del pagamento. Ne segue che
l'eccessiva gravosità può giustificare l'inadempimento, fino a quando il
creditore non collabori a modificarne in modo adeguato le modalità, onde
realizzare un giusto contemperamento degli interessi. Ovviamente, a norma
dell'art. 1218 c.c., è il debitore che deve provare la giustificatezza dell'inadempimento.
Nel caso concreto, anche prescindendo dagli accertamenti compiuti dal giudice
del merito, le censure mosse sul punto alla sentenza impugnata si mantengono su
livelli di totale genericità. In sostanza, ci si limita ad affermare che l'organizzazione
in atto per riscuotere le quote sindacali sulla base delle clausole del
contratto collettivo applicato in azienda non era idonea ad essere impiegata
anche per dare esecuzione alle cessioni, ma senza alcuna specificazione delle
differenze. In ogni caso, il giudizio di merito circa il "modesto"
aggravamento della posizione debitoria non è validamente contestato, siccome
non sono dedotti fatti che, sottoposti al vaglio della Corte di Torino, non
sono stati valutati, o valutati insufficientemente, ovvero in modo illogico.
5. Va ora esaminato il secondo motivo del ricorso, con il quale è denunciata
violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della l. 300/1970, erronea
motivazione circa l'estraneità della controversia rispetto alla nozione di
condotta antisindacale.
Si sostiene che, anche ammessa l'esistenza di una fattispecie di inadempimento
imputabile all'azienda, non era tuttavia configurabile comportamento
antisindacale, perché la titolarità da parte del sindacato dei crediti ceduti
era estranea alla sfera di libertà e di attività tutelate dall'art. 28 Statuto
dei lavoratori, un'estraneità direttamente derivante dall'esito referendario.
5.1. Anche questo motivo non può essere accolto.
Il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti
configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico,
costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a
limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del
rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti
collettivi della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di
sostentamento per lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione
di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre
organizzazione sindacali con cui sono in concorrenza.
5.2. A ben vedere, la ricorrente non contesta tanto la presenza di un
inadempimento qualificato dall'idoneità ad incidere in modo recessivo
sull'attività del sindacato, quanto la possibilità giuridica di ritenere che il
diritto di riscuotere quote associative nella qualità di creditore cessionario
del credito retributivo possa ascriversi all'attività sindacale tutelata
dall'art. 28 Statuto dei lavoratori. Ciò sarebbe precluso, ad avviso della
ricorrente, dall'esito referendario, che, sopprimendo l'obbligo di
collaborazione del datore di lavoro, non consente di tutelare il diritto
acquistato con altri strumenti dal sindacato, in assenza del consenso del datore
di lavoro, quale attività sindacale ai sensi e per gli effetti dell'art. 28
Statuto dei lavoratori.
5.3. Osserva la Corte che un tale ordine di argomentazioni ripete,
sostanzialmente immutata, la tesi già disattesa nell'esame del terzo motivo. Ed
infatti, si pretende di desumere dall'esito referendario il precetto secondo il
quale è antisindacale soltanto l'inadempimento di obblighi assunti
volontariamente dal datore di lavoro nei confronti dei soggetti sindacali, non
anche l'inadempimento di obblighi derivanti da fonti negoziali che non ne
contemplano il consenso.
Non resta, quindi, che rinviare alle considerazioni già svolte per escludere
che lo strumento della cessione del credito per riscuotere quote sindacali
possa reputarsi nulla per frode alla legge; si ribadisce che, scomparso
l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per
realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più, equivalenti. E
ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che incide sull'attività
sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi condotta antisindacale,
senza che possa in alcun modo rilevare la fonte dell'obbligo medesimo.
Una considerazione conclusiva si impone: il referendum ha lasciato in vigore il
primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti
individuali dei lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto attiene,
in particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i
contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce una modalità di
esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso,
lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei
diritti individuali e di quelli del sindacato.
6. Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato, Sussistono, evidenti, giusti
motivi per compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni
unite, rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.