L’acquiescenza anticipata alla sentenza: l’accettazione della sentenza anteriormente alla sua pronuncia può configurare un negozio giuridico processuale plurilaterale a carattere aleatorio
Avv. Gianluca Ludovici
La Corte di Cassazione, Sez. Civ. II, con ordinanza interlocutoria n. 3469 del 06 Marzo 2012, ha rimesso alle proprie Sezioni Unite una questione di particolare interesse e rilievo per l’ordinamento processualcivilistico, concernente la validità dell’accordo in virtù del quale le parti di una controversia civile involgente un diritto disponibile e sottoposta al vaglio di un giudice, ma non ancora decisa, rinunciano alla impugnazione dell’emananda sentenza.
La quaestio iuris in esame non risulta aver trovato molta fortuna in dottrina ed in giurisprudenza, se il Giudice ad quem ha rilevato solo poche pronunce espressione, peraltro, di un orientamento risalente nel tempo e prima facie non proprio convincente. Uno dei precedenti ricordati dal Supremo Collegio e già citato dalla Corte territoriale di Salerno ad esempio del consolidato insegnamento del Giudice di legittimità si esprimeva nei seguenti letterali termini: “la rinunzia preventiva all’impugnazione è nulla perché essa tendendo ad alterare i contenuti dei poteri dell’organo giudicante ed il sistema dei controlli previsti nel processo per l’esercizio della funzione giurisdizionale contrasta con l’interesse pubblico che presiede allo svolgimento di detta funzione” .
La questione di diritto in esame appare, pertanto, meritevole di approfondimento. Al fine di condurre un’analisi corretta e libera da vincoli derivanti da posizioni preconcette o ideologiche, appare opportuno, prima di procedere alla trattazione vera e propria della questione, fissare un punto fermo universalmente condiviso o condivisibile da cui poter poi muovere solidamente il ragionamento. Tale dato di partenza non può che essere quel principio di libera disponibilità della tutela giurisdizionale la cui immanenza è stata più volte rilevata dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità attraverso un’opera di interpretazione sistematica delle norme del codice di rito: è noto, infatti, come il sistema processualcivilistico italiano presupponga la “disponibilità dell’azione giudiziale, essendo questa caratterizzata dalla non obbligatorietà di essere intrapresa o di essere proseguita una volta avviata” ed espressione di un diritto inviolabile previsto e tutelato dall’art. 24 Cost.. Oltre alla libera scelta riconosciuta ad ogni cittadino di intraprendere o meno l’azione giudiziaria deferendo alla capacità cognitiva e decisionale di un giudice terzo ed imparziale la risoluzione della disputa, vengono alla mente, a conferma e fondamento della esistenza ed operatività di un simile principio, altri istituti che postulano, invece, la sussistenza di un contenzioso già incardinato dinanzi all’Autorità Giudiziaria Civile; il riferimento è ovviamente alle figurae del ricorso per saltum ex art. 360, comma II C.P.C., della rinuncia agli atti del giudizio ex art. 306 C.P.C., dell’acquiescenza totale o parziale alla sentenza (intesa quale prodotto di una rinuncia espressa o per atti concludenti alla volontà di avvalersi dei rimedi impugnatori garantiti dalla Legge) ex art. 329 C.P.C., della rinuncia all’appello ex art. 339 C.P.C., del disinteresse alla prosecuzione del giudizio per inattività di entrambe le parti ex artt. 181 e 309 C.P.C. e le ipotesi di mancata riassunzione della causa entro il termine di 3 mesi, a seguito del verificarsi di casi di sospensione ex art. 295 C.P.C. o di interruzione ex artt. 299 C.P.C.. Per alcuni di questi istituti e, più precisamente, per quelli sfocianti in una vera e propria manifestazione (aspetto soggettivo) e dichiarazione (aspetto oggettivo) di volontà, si è correttamente parlato di “negozi giuridici processuali”, vale a dire di atti di autonomia negoziale diretti a soddisfare uno scopo pratico (di natura procedurale), tutelato e/o non vietato dall’ordinamento giuridico in generale e da quello processualistico civile in particolare, i cui effetti vengono ritenuti dalla Legge conformi al raggiungimento della specifica finalità perseguita. Questo è quanto accaduto per l’acquiescenza (successiva alla sentenza) conseguente all’accettazione espressa o tacita ai sensi dell’art. 329, comma I C.P.C., che costituisce secondo orientamento dominante in dottrina e giurisprudenza chiara ipotesi di negozio giuridico, “posto che la suddetta norma fa uso dei concetti tipici che qualificano il negozio giuridico, prevedendo accanto all’accettazione espressa, il compimento di atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge” ; l’acquiescenza alla sentenza, per sua stessa natura preclusiva dell’impugnazione, consiste infatti nell’accettazione del dictum giudiziale ovvero nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, volontà potenzialmente esternabile sia in forma espressa, che tacita. Analogamente deve dirsi per il ricorso alla Corte di Cassazione mediante omissione dell’appello ex art. 360, comma II C.P.C. (cosiddetto ricorso per saltum) in relazione al quale tanto la prevalente dottrina, quanto l’unanime giurisprudenza di ogni ordine e grado hanno affermato che l’accordo delle parti volto a far approdare la controversia decisa in primo grado dinanzi al Giudice di legittimità “va ritenuto un negozio giuridico processuale, quanto meno sotto il profilo della rilevanza della manifestazione di volontà dei dichiaranti, il cui effetto immediato è quello di rendere non appellabile la sentenza oggetto dell’accordo”....
LaPrevidenza.it, 23/04/2012