venerdì, 11 ottobre 2024

Periodo di comporto, l'assenza del lavoratore è ammessa se la malattia professionale è scaturita per colpa del datore di lavoro

Tribunale di Roma sezione terza lavoro, sentenza 25.6.2020 n. 3754

 

REPUBBLICA ITALIANA 
 
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO  

TRIBUNALE DI ROMA TERZA SEZIONE LAVORO 

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Silvia Antonioni ha pronunciato, dandone pubblica lettura, la seguente  

SENTENZA nella causa iscritta al n. r.g. 19113/2019 promossa da: Fa. St., elettivamente domiciliata in Cassino, via D. Cimarosa 52, presso lo studio dell'avv. Nadia Pacitto che la rappresenta e difende per procura allegata al ricorso

RICORRENTE  CONTRO xxx s.p.a., in persona elettivamente  del l.r.p.t., domiciliata in Roma, via Stoppani 1, presso lo studio dell'avv. Massimo Buccioni e dell'avv. Gloria Cavalli che la rappresentano e difendono per procura in calce alla memoria difensiva RESISTENTE

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. ritualmente notificato St. Fa., premesso di essere stata assunta in data 1.7.2014 dalla società convenuta con qualifica di operaia addetta ai servizi di mensa, di essere stata illegittimamente trasferita presso la sede di Casalbianco in Roma dalla sede di Cassino nonostante la propria patologia che le impediva di affrontare e sostenere lunghi viaggi su mezzi affollati, e di essere stata, altresì illegittimamente licenziata, in data 26.11.2018, per superamento del periodo di comporto nel quale calcolato anche il periodo di malattia imputabile al datore di lavoro, conveniva avanti l'intestato Tribunale la predetta società per ivi sentirla condannare, previo accertamento della nullità del licenziamento, a "provvedere al reintegro immediato al lavoro" di essa ricorrente nonché per sentir accertare e dichiarare il suo diritto "ad essere collocata e, quindi, trasferita presso la sede di Cassino" e condannare la società "al pagamento dei diritti acquisiti e ai ratei maturati medio tempore, relativi alla retribuzione contrattuale, contribuzione come per legge e diritti agli scatti di anzianità a far data dal licenziamento e fino alla reintegra sul posto di lavoro" e "al risarcimento dei danni morali e materiali sopportati... nella misura equa e ristoratrice da determinarsi dal Giudice, quale risultante ed emergente in corso di causa".

A sostegno della propria domanda deduceva di essere affetta da grave claustrofobia nonché di disturbo depressivo reattivo con notevole quota ansiosa; di essere stata sottoposta a visita da parte del medico competente all'esito della quale era riconosciuta idonea al lavoro con limitazioni ("evitare sollevamento pesi maggiori di 5 kg senza ausilio meccanico o di altro personale") e di aver richiesto ed ottenuto una visita integrativa (della quale tuttavia non era mai stata messa a conoscenza dell'esito); di aver richiesto invano il trasferimento presso la sede di Cassino, vicina alla sua abitazione e ai suoi genitori, entrambi disabili, che doveva assistere; di aver impugnato il trasferimento, anche in via di urgenza, avanti il Tribunale di Roma che, tuttavia, non aveva ritenuto sussistere i presupposti per la cautela richiesta e, essendo nelle more intervenuto il licenziamento, aveva rigettato il ricorso nel merito per sopravvenuta carenza di interesse; che il licenziamento doveva ritenersi nullo per carenza di legittimazione dell'intimante, non essendo leggibile la firma sulla relativa lettera; che il periodo di malattia imputabile al datore di lavoro - che aveva determinato l'aggravarsi delle sue patologie - non poteva essere computato nelle assenze valutate ai fini del superamento comporto; che la certificazione medica ex art. 41 Dlgs 81/2008 era stato oggetti di cancellazione e abrasioni senza peraltro apposizione della data di dette modifiche; che il diniego al trasferimento presso la sede di Cassino doveva ritenersi illegittimo anche alla luce del suo diritto ad assistere i familiari portatori di handicap ex l. 104/92; che l'illegittima condotta datoriale aveva avuto ripercussioni sulla vita lavorativa e familiare di essa ricorrente, causandole danni dei quali chiedeva il risarcimento.

Si costituiva in giudizio la Vivenda s.p.a. la quale, prospettata una diversa ricostruzione dei fatti - secondo la quale la ricorrente, già dipendente di altro datore di lavoro assegnatario dell'appalto e quindi transitata, in ossequio alla disciplina collettiva, presso essa società che la aveva già da subito assegnata (e non già trasferita) all'unità produttiva corrispondente, ovvero al Centro Cottura Pasti di Roma, ove mai la stessa aveva prestato neppure un giorno di lavoro dal tempo dell'assunzione, nell'agosto 2014, restando assente fino al superamento del periodo di comporto - e dedotto l'intervenuto giudicato in ordine alla questione del trasferimento della ricorrente - comunque non più attuale stante il sopravvenuto difetto di interesse - respingeva ogni addebito di responsabilità quanto alla paventata imputabilità, in suo capo, di assenze dal lavoro della ricorrente (alla quale peraltro era stato proposto un avvicinamento presso la sede di Sora) chiedendo il rigetto integrale del ricorso.

A seguito dell'emergenza sanitaria relativa all'epidemia da COVID 19, con provvedimento del 23.4.2020, in ossequio alle disposizioni di cui all'art. 83 del DL 18/2020, era disposta la trattazione scritta della causa ed il rinvio della stessa all'udienza odierna, previo scambio di memorie: verificata la regolarità delle comunicazioni da parte della Cancelleria e il deposito delle note di trattazione scritta ad opera di entrambe le parti, la causa è stata dunque decisa mediante deposito telematico della presente sentenza.

 MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente rileva il Tribunale l'inammissibilità della domanda relativa al trasferimento della ricorrente spesa nell'odierno giudizio.

La domanda in questione, infatti, oltre ad essere stata già esaminata in altro giudizio - dapprima in via cautelare e quindi nella cognizione piena del merito - sì da non potere essere oggetto di quello odierno pena la violazione del principio del ne bis in idem, era nondimeno, già nel giudizio che ne ha visto l'esame in via principale, divenuta carente dell'indefettibile condizione dell'azione relativa all'interesse ad agire, per essere intervenuto, nelle more, il licenziamento della Fa..

La ricorrente ha chiesto, poi, la declaratoria in primo luogo della nullità del licenziamento intimatole con lettera comunicata il 26.11.2018, per "carenza di legittimazione dell'intimante".

La censura è priva di pregio.

Non nega la ricorrente che la lettera di licenziamento sia stata firmata dall'amministratore del personale né, del resto, che la firma appostavi (pur illeggibile e tuttavia "intellegibile") sia allo stesso riferibile, limitandosi a porre in dubbio il potere di rappresentanza in capo ad esso.

L'art. 2 della legge 15 luglio 1966 n. 604, modificato dall'art. 2 della legge 11 maggio 1990 n. 108, esige che il licenziamento sia comunicato per iscritto al lavoratore e tale onere di forma impone che l'atto con il quale sia stato intimato il recesso sia sottoscritto dal datore di lavoro o dal suo rappresentante che ne abbia il potere generale o specifica procura scritta (Cass. sent. n. 12256/2000). Nella specie il potere dell'amministratore del personale emerge chiaramente dalla procura ad esso rilasciata in data 1.10.2015 (cfr. all. 35 fascicolo resistente) così come dalla visura della società al tempo del licenziamento (doc. 36).

Si sottolinea che in ogni caso la scrittura con la quale sia intimato il licenziamento può ritenersi valida, ai sensi dell'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, anche quando non venga sottoscritta dal datore di lavoro o da un suo rappresentante, ma contenga, nell'intestazione ed in calce, la denominazione dell'impresa e del suo titolare, sia trasmessa mediante raccomandata e tempestivamente impugnata dal lavoratore con riferimento al contenuto e non alla forma.

Nella specie la lettera di licenziamento, redatta su carta intestata della Vivenda s.p.a. e spedita con lettera raccomandata alla ricorrente, è stata oggetto di impugnazione non solo per l'asserito difetto di forma ma anche e diffusamente quanto al suo contenuto, in ordine al quale la ricorrente ha speso ampie e circostanziate difese (Cass. n. 7044/2010).

La ricorrente ha impugnato, poi, il licenziamento per asserita illegittimità dello stesso per essere stato computato, nel periodo di comporto, anche quello di malattia imputabile al datore di lavoro.

La circostanza, tuttavia, oltre ad essere stata allegata in maniera carente - ove non contraddittoria - è nondimeno smentita dalle circostanze di fatto emerse in corso di giudizio.

Si osserva che in tema di calcolo di periodo di comporto, affinché l'assenza sia esclusa dal calcolo occorre l'allegazione e la prova che la malattia professionale sia dipendente da colpa del datore di lavoro, sub specie di violazione degli specifici obblighi di protezione su questo incombenti ai sensi dell'art. 2087 c.c. (cfr., tra le molte, Cass. 25072/2013, Cass. 7037/2011 e Cass. n. 1333/2007 nella quale si legge senza possibilità di equivoci: "Deve altresì premettersi che, al fine dell'affermazione della responsabilità del datore di lavoro per mancato rispetto dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ., è necessario che l'evento dannoso sia riferibile a sua colpa").

È necessario, dunque, il collegamento causale fra la malattia e le condizioni morbigene presenti nell'ambiente di lavoro ed imputabili proprio alla violazione da parte del datore di lavoro degli specifici obblighi di cui all'art. 2087 c.c. oppure che vi siano espresse previsioni del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro che prevedano l'esclusione dal computo del comporto delle assenze in ragione della sola loro dipendenza causale dal rapporto di lavoro, a prescindere cioè dalla responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro (che tuttavia neppure sono invocate - ovvero mancano del tutto - nel caso di specie).

Si osserva in proposito che l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Sez. L - , Ord. n. 24742 del 08/10/2018)

La prova della responsabilità datoriale, ai sensi dell'art. 2087 c.c., richiede l'allegazione da parte del lavoratore, che agisce deducendo l'inadempimento, sia degli indici della nocività dell'ambiente lavorativo cui è esposto, da individuarsi nei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa, sia del nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni subiti (cfr. Cass. sez. L - , Sent. n. 28516 del 06/11/2019).

Nella specie la ricorrente non ha neppure dedotto quale possa essere stato il fattore di rischio al quale, per inadempimento colposo del datore di lavoro, ella sia stata esposta nell'ambiente di lavoro, limitandosi a lamentare di essere stata illegittimamente trasferita presso la sede di Roma - cosa che le provocava lo stress del viaggio, incompatibile con la propria patologia (claustrofobia e disturbo depressivo reattivo con notevole quota ansionsa) e comunque nella illegittimità del diniego opposto dalla società al suo trasferimento presso al sede di Cassino, alla quale aveva diritto di essere assegnata per l'assistenza ai propri genitori disabili.

Ora è che, oltre a non rispondere al vero che la ricorrente sia stata trasferita presso la sede di Roma quanto, invece, che alla stessa sia stata - incontestatamente - assegnata dal momento della sua assunzione da parte della società resistente subentrata nell'appalto, in nessun caso il negato trasferimento presso la sede di Cassino - al quale, diversamente da quanto prospettato, la ricorrente non aveva affatto il pieno diritto che mostra di vantare - potrebbe aver causato alcuno stress alla Fa., concretamente mai recatasi sul posto di lavoro dal giorno della sua assunzione così come dedotto - e non contestato - dalla difesa della Vivenda.

Nessuna relazione causale, pertanto, potrebbe giammai ravvisarsi tra le patologie sofferte dalla ricorrente (la documentazione relativa alle quali, in ogni caso, non fa alcun riferimento alle condizioni lavorative) e la sua assegnazione ad una sede distante dalla sua abitazione, il viaggio per raggiungere la quale di fatto mai affrontato.

Tanto è sufficiente ad escludere qualsivoglia condotta datoriale che possa aver influito sulle condizioni di salute della Fa. la quale, prospettando l'illegittimità del licenziamento sulla imputabilità delle proprie assenze della lavoro alla società convenuta, è stata smentita in radice dalla incontestata deduzione del mancato svolgimento anche di un solo giorno di lavoro presso la sede di assegnazione.

Nessuna contestazione, poi, è stata sollevata dalla ricorrente in ordine all'effettivo superamento, da parte sua, del periodo di comporto, non avendo la difesa opposto alcunché neppure al calcolo dei giorni di sua assenza dal lavoro così come effettuato dalla società.

Nella infondatezza delle ragioni di impugnazione del trasferimento restano assorbite tutte le altre domande della ricorrente, compresa quella di risarcimento del - neppure compiutamente allegato e comunque non provato - danno, la cui liquidazione - omessa ogni allegazione agli elementi ai quali eventualmente parametrarla - era stata inammissibilmente chiesta in via equitativa. Al proposito, infatti, è appena il caso di sottolineare che il potere discrezionale, conferito al giudice dall'art. 1226 c. c., di liquidare il danno in via equitativa, oltre a presupporre l'esistenza ontologica del danno (Cass. civ., sez. II, n. 24680/2006) è subordinato alla condizione che sia impossibile o molto difficile provare il danno nel suo preciso ammontare; l'esercizio concreto, in senso positivo o negativo, del detto potere non esonera la parte dall'onere dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto in suo possesso per consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e ricondotto alla sua caratteristica funzione di colmare soltanto le inevitabili lacune al fine della precisa determinazione del danno (Cass. n. 6056/1990; sez. II, n. 15585/2007; sez. II, n. 13288/2007). Diversamente opinando si consentirebbe l'ingresso al puro arbitrio del giudice che, nell'impossibilità di considerare gli elementi di riferimento del suo giudizio che le parti avrebbero potuto agevolmente sottoporgli, perverrebbe ad una pronuncia irrazionale, non motivabile e non verificabile, per ciò solo sindacabile in sede di legittimità (Cass. civ. sez III, n. 23304/2007).

Il ricorso deve pertanto essere integralmente respinto.

La condanna alle spese della ricorrente, liquidate come in dispositivo, segue la soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda in epigrafe:

- respinge tutte le domande;

- condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio - liquidate in complessivi E 2.500,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori come per legge - in favore della Vivenda s.p.a., in persona del l.r.p.t. e da distrarsi.

Roma, 25.6.2020

Depositata in Cancelleria il 25/06/2020
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LaPrevidenza.it, 03/08/2020

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