domenica, 13 ottobre 2024

La detenzione di stupefacenti anche al di fuori dell'orario e sede di lavoro legittima il licenziamento

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 3.12.2019 n. 31531

 

Nel caso in esame la Corte è intervenuta per dirimere la controversia lavorativa di un portalettere al quale era stata comminata la massima sanzione (risoluzione del rapporto di lavoro per giusta causa extralavorativa) per essere stato oggetto di procedimento penale per accertata detenzione di non modica quantità di stupefacenti.

Il licenziamento era stato comminato anche se la detenzione delle sostanze in precedenza richiamate è avvenuta al di fuori dell'orario e del luogo di lavoro. Ciò nonostante la Corte ha ritenuto dover confermare la legittimità del licenziamento in quanto al lavoratore viene richiesto di tenere sia un comportamento diligente in orario di servizio che una condotta extralavorativa tale da non ledere l'immagine, gli interessi morali e materiali del datore di lavoro.

(Giovanni Dami)

***

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE  
SEZIONE LAVORO  

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DI CERBO Vincenzo - Presidente - Dott. RAIMONDI Guido - Consigliere - Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo - Consigliere - Dott. ARIENZO Rosa - Consigliere - Dott. BLASUTTO Daniela - rel. Consigliere - 

ha pronunciato la seguente:  SENTENZA

sul ricorso 19369-2018 proposto da:  D.F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENATO FUCINI 63, presso lo studio dell'avvocato CARLA MONTANARO, rappresentato e difeso dall'avvocato ROCCO MARCACCIO; - ricorrente - contro XXX., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell'avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende; - controricorrente - 

avverso la sentenza n. 115/2018 della CORTE D'APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 27/04/2018 R.G.N. 188/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO; 

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE ALBERTO, che ha concluso per accoglimento del ricorso per quanto di ragione; udito l'Avvocato ROCCO MARCACCIO; udito l'Avvocato CAMILLA NANNETTI per delega verbale Avvocato ARTURO MARESCA.


FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Campobasso, con sentenza n. 115/2018, confermava la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Isernia con cui era stata respinta l'impugnativa del licenziamento senza preavviso intimato da Poste Italiane s.p.a. a D.F.M. in data 23 maggio 2016, con effetto dal 22 aprile 2016.

2. Il D.F. era stato sottoposto ad un procedimento penale per il possesso di sostanze stupefacenti, conclusosi con sentenza di patteggiamento emessa in data (OMISSIS) dal Tribunale di Isernia alla pena di quattro mesi di reclusione ed Euro 800,00 di multa, con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Di seguito, la società Poste italiane, all'esito di procedura disciplinare, gli aveva intimato il licenziamento per giusta causa ai sensi dell'art. 54, comma 4, lett. h) del CCNL 11 aprile 2011 per essere i fatti di gravità tale da ledere irreversibilmente il rapporto di fiducia tra le parti.

3. La Corte di appello, nel respingere l'appello proposto dal D.F. avverso la sentenza di primo grado, osservava che il CCNL di settore, all'art. 54, comma 4, lett. h), prevede espressamente l'irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso allorchè il lavoratore sia condannato con sentenza passata in giudicato - alla quale è da equiparare, ai fini del procedimento disciplinare, la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. - per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, quando i fatti costituenti reato possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del vincolo fiduciario: nel caso di specie, il D.F. aveva detenuto un ragguardevole quantitativo - circa 60 gr. - di sostante stupefacenti di diverse tipologie, come descritto nella contestazione di addebito, condotta da ritenere "conforme a quella astratta prevista dal reato di cui AL D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1, 4 e 5" e per la quale gli era stata applicata la pena di cui alla sentenza di patteggiamento.

3.1. La Corte di appello valutava tale comportamento come contrario agli "essenziali principi di vivere civile", dovendosi pure tenere conto delle mansioni di portalettere espletate dal ricorrente "implicanti diretto contatto con il pubblico", come pure "i negativi risvolti nel ristretto ambiente sociale ove la detta prestazione lavorativa è stata espletata".

3.2. Rilevava altresì che vi è una differenza ontologica tra il reato di detenzione di sostanze stupefacenti e l'ipotesi di cui all'art. 54, comma 5, lett. b) CCNL, riguardante l'uso delle sostanze stesse.

4. Per la cassazione di tale sentenza il D.F. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui ha resistito la soc. Poste Italiane con controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria eiart. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), deduce:

- che il comportamento contestato consisteva in una violazione di legge, verificatasi al di fuori dell'orario e del luogo di lavoro, senza alcun riflesso sulla prestazione lavorativa e da considerare fatto lieve, come ritenuto in sede penale con il decreto di citazione a giudizio, e che pertanto la fattispecie doveva essere sussunta nell'alveo applicativo dell'art. 54, comma 4, lett. n) CCNL, che contempla la sanzione conservativa della sospensione dal servizio per l'ipotesi di inosservanza di leggi o regolamenti, sempre che la mancanza non abbia carattere di particolare gravità altrimenti sanzionabile;

- che i fatti risalivano all'aprile 2014 e l'attività lavorativa era proseguita per conto del datore di lavoro per oltre un biennio fino al mese di maggio 2016, per cui non solo vi fu un'effettiva continuazione del rapporto di lavoro, ma i fatti commessi non potevano dirsi idonei ad inibire la sua prosecuzione, a norma dell'art. 80 CCNL, che richiama l'art. 2119 c.c.;

- che nulla aveva motivato la sentenza sulla proporzionalità della sanzione, mentre l'art. 53 CCNL ribadisce il principio di cui all'art. 2106 c.c. e, al comma 4, esige di tener conto, oltre che del grado di negligenza e di intenzionalità della condotta, anche di precedenti disciplinari nel biennio, assenti nel caso di specie;

- che la sentenza non aveva esaminato neppure l'art. 45 CCNL, che regola la tutela dei lavoratori affetti da dipendenza da sostanze stupefacenti, psicotrope ed alcoliche, con previsione che tende al recupero del lavoratore attraverso la conservazione del posto di lavoro, proprio per l'indubbio valore positivo che assume il lavoro nella realizzazione della persona umana.

2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c., dell'art. 2119 c.c. e delle L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) sulla scorta dei medesimi argomenti di cui al primo motivo: quanto alla proporzionalità, si era in presenza di un unico episodio della vita lavorativa, di lieve entità; quanto alla giusta causa, il rapporto di lavoro era proseguito per circa un biennio dai fatti e dunque era inidoneo ad integrare la rottura irreparabile del vincolo fiduciario ed era avvenuto al di fuori dell'orario e del luogo di lavoro, per cui non aveva avuto alcuna incidenza sulla prestazione nè aveva arrecato danni all'azienda.

3. Il terzo motivo denuncia error in iudicando per violazione del principio del ne bis in idem, in quanto il datore di lavoro aveva già esercitato il potere disciplinare disponendo, nell'immediatezza dei fatti, il trasferimento del lavoratore presso l'unità lavorativa di Termoli, per cui non avrebbe potuto rinnovare l'azione disciplinare punendo una seconda volta il ricorrente per gli stessi fatti.

4. Il quarto motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per non avere la sentenza esaminato la questione della consumazione del potere disciplinare, posta in sede di impugnazione del licenziamento, nel ricorso in opposizione e nel reclamo, ma sulla quale la Corte non si era espressa.

Sempre con il quarto motivo si denuncia "motivazione illogica" per avere la sentenza affermato che la condotta era idonea a "porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento", mentre la prestazione lavorativa era stata svolta correttamente per un lungo periodo dopo la commissione del fatto.

Si sostiene infine la genericità dell'affermazione secondo cui la condotta aveva violato "gli essenziali principi del vivere civile", riconducibile al precetto di non trasgredire la legge, ma insufficiente a dimostrare la lesione del vincolo fiduciario.

5. I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente, in quanto tra loro connessi. Essi sono infondati.

6. La fattispecie contestata dalla società datrice di lavoro e per la quale è stata irrogata la sanzione disciplinare espulsiva è quella di cui all'art. 54, comma 4, lett. h) del CCNL 11.4.2011, che punisce con il licenziamento senza preavviso il lavoratore che riporta una "condanna passata in giudicato per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, quando i fatti costituenti reato possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del vincolo fiduciario". Il caso in esame attiene ad una sentenza passata in giudicato recante l'applicazione di pena in esito a patteggiamento per un reato commesso al di fuori dei luoghi e dell'orario di lavoro e consistente nella illecita di detenzione di gr. 60 di sostanze stupefacenti di varie tipologie.

7. In proposito, occorre premettere che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte laddove ha affermato che, in tema di responsabilità disciplinare del lavoratore, la sentenza di patteggiamento è equiparabile ad una sentenza resa all'esito del dibattimento.

7.1. L'art. 54 del contratto collettivo di lavoro dei dipendenti di Poste Italiane dell'11 gennaio 2001, nel prevedere l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento nell'ipotesi di "condanna" del dipendente, si interpreta nel senso che è sufficiente che sia stata pronunciata, nei confronti del lavoratore, sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., dovendosi ritenere che le parti contrattuali abbiano voluto con tale previsione dare rilievo anche al caso in cui l'imputato non abbia negato la propria responsabilità ed abbia esonerato l'accusa dall'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena (Cass. n. 2168 del 2013; v. pure Cass. n. 4060 del 2011). Pertanto, la fattispecie corrisponde a quella prevista dalle parti sociali di "condanna passata in giudicato per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro".

8. Venendo all'esame delle norme del CCNL Poste Italiane che parte ricorrente assume violate, va innanzitutto osservato che correttamente la Corte di appello non ha sussunto la fattispecie concreta in quella astratta di cui all'art. 54, comma 4, lett. n) che riguarda "in genere, per qualsiasi negligenza o inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio deliberatamente commesse, anche per procurare indebiti vantaggi a sè o a terzi, ancorchè l'effetto voluto non si sia verificato e sempre che la mancanza non abbia carattere di particolare gravità, altrimenti sanzionabile".

8.1. Tale previsione contrattuale riguarda i casi in cui la prestazione lavorativa non sia stata pienamente conforme alle disposizioni (leggi, regolamenti o obblighi di servizio) che ne regolano lo svolgimento, mentre la condotta contestata attiene a fatti dolosi commessi non in connessione con lo svolgimento delle mansioni.

9. Del pari, non è pertinente il richiamo delle previsioni dettate dalle parti sociali per il recupero dei lavoratori tossicodipendenti, questione del tutto avulsa dal thema decidendum, che riguarda l'esercizio dell'azione disciplinare per la commissione di fatti aventi rilevanza penale.

10. L'art. 80 CCNL elenca le ipotesi in cui, "oltre che nei casi già disciplinati da altre norme del presente contratto", è possibile la risoluzione del rapporto di lavoro e contempla, alla lett. e), la "giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c." e il "giustificato motivo ai sensi delle vigenti disposizioni di legge", confermando la possibilità del licenziamento ove i fatti, anche se commessi al di fuori della prestazione lavorativa e per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di condanna, siano di gravità tale da non consentire neppure in via provvisoria la prosecuzione del rapporto di lavoro.

11. Quanto alla circostanza del tempo trascorso prima della contestazione disciplinare e al correlativo svolgimento del rapporto di lavoro nelle more, deve rilevarsi che nel contesto della previsione di cui all'art. 54, comma 4, lett. h) del CCNL 11.4.2011, essa non può costituire un dato rilevante in sè per escludere la lesione del vincolo fiduciario: se prima del passaggio in giudicato della sentenza penale la fattispecie prevista dalla norma non si era ancora realizzata, è logico che la contestazione debba seguire la condanna definitiva e che l'eventuale svolgimento del rapporto lavorativo nelle more intervenuto di per sè non può escludere la gravità o comunque la rilevanza disciplinare del fatto. Nella norma collettiva in esame, i fatti rilevano solo in quanto essi siano stati oggetto di un procedimento penale conclusosi con una sentenza di condanna passata in giudicato.

12. Quanto alla questione di stabilire se il fatto, nelle sue connotazioni oggettive e soggettive, potesse integrare o meno l'ipotesi della giusta causa ex art. 2119 c.c. o non attingesse ad un livello di gravità idoneo a ledere in modo irreparabile il vincolo fiduciario, va ribadito il principio che la giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e censurabile in cassazione nei limiti del vizio di motivazione.

12.1. La sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo standard conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Cassazione. E' dunque praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nei casi in cui gli standard valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell'ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente (ex plurimis, da ultimo, Cass. n. 7305 del 2018).

12.2. La Corte di appello ha espresso la propria valutazione circa la sussistenza della giusta causa, cui è insito anche il giudizio sulla proporzionalità della sanzione, sulla base di una serie di elementi. Innanzitutto, la sentenza ha evidenziato come la condotta fosse sussumibile nell'alveo di quella astratta di rilevanza penale di detenzione di sostanze stupefacenti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e ha argomentato che il quantitativo detenuto era di entità consistente e atteneva a diverse tipologie di sostanze, così esprimendo un giudizio sulla portata oggettiva del fatto-reato commesso (cfr. Cass. pen. 10949 del 2019, che richiama Cass. n. 4613 del 2011, n. 31103 e n. 48434 del 2008). In secondo luogo, la sentenza ha evidenziato il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente (portalettere e, come tale, incaricato di un pubblico servizio), atto a porlo a contatto con il pubblico e l'utenza. Infine, ha fatto cenno alla risonanza del fatto nel "ristretto ambiente sociale ove la detta prestazione lavorativa è stata espletata", da cui l'evidente pregiudizio per l'immagine dell'azienda arrecato dall'episodio nel contesto ambientale di svolgimento delle mansioni. Il complesso di tali elementi integra il giudizio espresso dalla Corte di appello in merito alla idoneità del fatto ascritto a ledere in modo irreparabile il vincolo fiduciario.

12.3. A fronte di tali passaggi motivazionali, il ricorso per cassazione si limita ad una contestazione generica di violazione degli standard valutativi della giusta causa, mentre spettava al ricorrente indicare le ragioni per cui il giudizio espresso dalla Corte di appello sarebbe inidoneo o incoerente con tali parametri, occorrendo tale allegazione quale specificazione della denunciata violazione di legge, considerato che anche fatti extralavorativi possono costituire giusta causa di licenziamento (cfr., tra le altre, Cass. n. 2168 del 2013, n. 3136 del 2015).

13. L'opera dell'interprete volta a concretizzare i concetti di giusta causa e di proporzionalità della sanzione è censurabile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli standard esistenti nella realtà sociale e non si traduca in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito (Cass. n. 7426 del 2018; v. pure Cass. 25144 del 2010).

13.1. Nè il fatto che in sede penale fosse stata riconosciuta la circostanza attenuante della lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 vale ad escludere l'obiettività giuridica e la struttura della fattispecie prevista come reato, attribuendo ad essa solo minore valenza offensiva (cfr. Sezioni Unite penali n. 35757 del 2010 e altre successive). Tale elemento, come tale, non rende incoerente, rispetto agli standard conformi ai valori dell'ordinamento, il giudizio espresso dalla Corte di appello di "contrarietà agli essenziali principi del vivere civile".

14. A ciò aggiungasi, sempre in ordine al giudizio di conformità agli standard valutativi, che questa Corte ha già in diverse occasioni affermato che la detenzione, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poichè il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario (cfr. Cass. 16524 del 2015).

E' stato osservato che l'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro, è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sè, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perchè di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti (Cass. n. 24023 del 2016 in fattispecie relativa a detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti).

14.1. Con specifico riferimento ai dipendenti di Poste Italiane s.p.a. è stato affermato che una condotta estranea all'esecuzione della prestazione lavorativa può assumere rilievo allorchè sia di gravità tale da compromettere il rapporto fiduciario fra le parti, avuto riguardo, fra l'altro, alla natura dell'attività svolta dal datore di lavoro (v. Cass. n. 3136 del 2015). In tale ultima sentenza è stato osservato che "..è infatti noto che l'attività, dello Stato o degli enti pubblici, intesa a soddisfare pubblici interessi, assenti nei fini dei medesimi soggetti pubblici, può essere svolta attraverso attività costituenti diretta manifestazione dell'autorità degli stessi soggetti ossia come attività della pubblica amministrazione, che si trova in posizione di supremazia nell'interesse generale della collettività, oppure attraverso un'attività privatistica, caratterizzata dalla posizione di parità del soggetto che opera per la soddisfazione dell'interesse pubblico e soggetti collaboratori ovvero fruitori del servizio. Quest'attività privatistica può essere svolta, come avviene spesso e in particolare per il servizio postale, mediante la costituzione di società con capitale prevalentemente o totalmente pubblico. La natura privatistica di questi soggetti societari spiega perchè essi debbano operare in regime di concorrenza oppure perchè siano assoggettati al comune regime della contribuzione previdenziale (Cass. 10 dicembre 2013 n. 27513) o delle garanzie legislative a tutela dei lavoratori contro situazioni di precariato (Cass. 18 ottobre 2013 n. 23702). 

Tuttavia l'impegno di capitale pubblico e la pubblicità del fine perseguito, che sottomettono l'attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost., non è senza riflesso nei doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, che debbono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza, anche nella condotta extralavorativa" (sent. cit., in motivazione).

15. Il terzo e il quarto motivo, entrambi aventi ad oggetto il provvedimento di assegnazione provvisoria del lavoratore ad altro ufficio, adottato nei confronti del D.F. con nota dal 16 maggio 2014, sono inammissibili.

15.1. Il terzo motivo denuncia violazione di legge in relazione al divieto di bis in idem.

Innanzitutto, l'assunto di error in iudicando lascia ipotizzare una interpretazione operata dalla Corte di appello ritenuta erronea, in contrasto con il quarto motivo, in cui si lamenta l'omesso esame della medesima eccezione difensiva.

A prescindere da tale contraddizione intrinseca al ricorso, va rilevato che la questione della natura disciplinare del disposto trasferimento è questione che non risulta trattata nella sentenza impugnata e il ricorso non descrive in quali termini la questione interpretativa sarebbe stata introdotta in giudizio e in quali termini sarebbe stata riproposta in appello. Il ricorso si limita a riferire il luogo della relativa deduzione, ma senza illustrarne il contenuto, di talchè non è dato conoscere i termini giuridici della censura, che involge l'interpretazione del CCNL (parte resistente rappresenta che l'istituto è regolato dall'art. 56 del CCNL, titolato "provvedimenti cautelari non disciplinari").

15.2. La giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 18316 del 2018 e Cass. n. 4403 del 2006) è consolidata nel ritenere che il requisito della esposizione sommaria dei fatti di causa (prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall'art. 366 c.p.c., n. 3) postula che il ricorso per cassazione - pur non dovendo necessariamente contenere una parte relativa alla esposizione dei fatti strutturata come premessa autonoma e distinta rispetto ai motivi o tradotta in una narrativa analitica o particolareggiata dei termini della controversia - offra, almeno nella trattazione dei motivi di impugnazione, elementi tali da consentire una cognizione chiara e completa non solo dei fatti che hanno ingenerato la lite, ma anche delle varie vicende del processo e delle posizioni eventualmente particolari dei vari soggetti che vi hanno partecipato, in modo che si possa di tutto ciò avere conoscenza esclusivamente dal ricorso medesimo, senza necessità di avvalersi di ulteriori elementi o atti.

15.3. Deve concludersi che, in difetto di tale specificazione, la denuncia di violazione del CCNL e del principio del ne bis in idem si fondi su un presupposto indimostrato, ossia che il trasferimento adottato dalla società sia un provvedimento disciplinare.

16. Infine, quanto alle censure di "motivazione illogica", va ribadito che in seguito alla riformulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. con modif. in L. n. 134 del 2012, è denunciabile in cassazione l'anomalia motivazionale che si concretizza nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili", quale ipotesi che non rende percepibile l'iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non consente alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass. n. 12096 del 2018). Non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza - di "mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un "fatto storico", che abbia formato oggetto di discussione e che appaia "decisivo" ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. n. 23940 del 2017; S.U. n. 8053 del 2014).

16.1. Le censure svolte dal ricorrente non integrano alcuno dei presupposti suddetti. Il quarto motivo è dunque complessivamente inammissibile.

17. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

18. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2019

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(Giovanni Dami)

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LaPrevidenza.it, 09/06/2020

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