La Consulta smonta un pezzo del "Jobs Act", illegittimo il limite risarcitorio fissato a sei mensilità per le aziende con meno di quindici dipendenti
Corte Costituzionale, sentenza 21.7.2025 n. 118
In tema di contratto di lavoro a tutele crescenti il Giudice del lavoro di Livorno, nel decidere in merito ad una controversia di ntura contrattuale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui detta i criteri di determinazione
delle indennità risarcitorie nel caso di licenziamenti
illegittimi, adottati da datori di lavoro che non raggiungano i
requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della
legge 20 maggio 1970, n. 300.
In buona sostanza il Giudice delle leggi ha ritenuto che i criteri di determinazione delle indennità risarcitorie (fino ad un massimo di sei mensilità) in presenza di licenziamento illegittimo nelle realtà lavorative con meno di 15 dipendenti vìoli il dettato costituzionale e di conseguenza deve essere dichiarato illegittimo.
I giudici della Consulta auspicano in un prossimo intervento del legislatore "nel rispetto del principio, qui affermato, secondo cui il criterio del
numero dei dipendenti non può costituire l'esclusivo indice rivelatore
della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità
dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare
anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il
fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari
elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale,
richiamata in precedenza (punto 2.2.2.)."
***
SENTENZA N. 118
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca
ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria
Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni
PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria
Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio
MARINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale
ordinario di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, nel
procedimento vertente tra A. O. e H. srl con ordinanza del 2 dicembre
2024, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie
speciale, dell'anno 2025. Visto l'atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udita nella camera di consiglio del 23 giugno 2025 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi;
deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2025.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 2 dicembre 2024, iscritta al n. 240 del registro
ordinanze 2024, il Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di
giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre
2014, n. 183), nella parte in cui detta i criteri di determinazione
delle indennità risarcitorie nel caso di licenziamenti
illegittimi, adottati da datori di lavoro che non raggiungano i
requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della
legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità
dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei
luoghi di lavoro e norme sul collocamento)(statuto dei lavoratori), in
riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 35,
primo comma, 41, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea (CSE),
adottata a Torino il 18 ottobre 1961 e riveduta, con annesso, a
Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 9
febbraio 1999, n. 30.
1.1. Il giudice rimettente premette di
essere stato adito da una ex dipendente di una società di capitali (H.
srl) per ottenere, in via principale, l'accertamento dell'illegittimità
del licenziamento intimatole per insussistenza del fatto materiale
contestato, con conseguente reintegrazione della stessa e risarcimento
del danno ai sensi dell'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015; in
via subordinata, l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, in
quanto intimato in violazione dell'art. 7 statuto lavoratori e,
per l'effetto, la condanna della società al pagamento di un'indennità
non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, in applicazione
dell'art. 4 del medesimo d.lgs. n. 23 del 2015.
Il rimettente
ricorda, inoltre, che la società resistente, costituitasi tardivamente
in giudizio, ha chiesto il rigetto delle domande e ha opposto
l'inapplicabilità, nella specie, degli artt. 3, comma 2, e 4 del d.lgs.
n. 23 del 2015, essendo queste ultime disposizioni inerenti solo a
datori di lavoro che raggiungono i requisiti dimensionali di cui
all'art. 18, commi ottavo e nono, della legge n. 300 del 1970 (e cioè
che non occupino più di quindici dipendenti presso un'unità produttiva o
nell'ambito di un comune e che comunque non occupino più di sessanta
dipendenti), laddove la società in questione ha avuto alle proprie
dipendenze al massimo quattordici lavoratori, come risulta dal
certificato camerale.
Nell'ordinanza di rimessione è, infine,
precisato che risulta incontestato, anzitutto, che la ricorrente è stata
assunta dalla società convenuta con contratto a tempo indeterminato a
far data dal 1° aprile 2015 ed è stata licenziata per giusta causa il 30
settembre 2021, senza essere mai stata destinataria, nei sei anni
di lavoro, di alcun provvedimento disciplinare scritto e senza aver
ricevuto la lettera di contestazione prima dell'irrogazione della
sanzione espulsiva. Si rileva, inoltre, che il datore di lavoro (la H.
srl) è una società di capitali che si occupa, dal 1991, di manutenzione
ordinaria e straordinaria di macchine e apparecchi per il trattamento
della carta nei centri di elaborazione dati e nell'industria, con un
capitale sociale di 590.000 euro e un fatturato di circa 3.931.947 euro
per l'anno 2022 e di 4.730.253 euro per l'anno 2023.
1.2. Tanto
premesso, il Tribunale di Livorno solleva questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui
prevede che, nel caso di licenziamenti illegittimi intimati da datori di
lavoro che non raggiungano i requisiti dimensionali di cui all'art. 18,
commi ottavo e nono, statuto lavoratori, l'ammontare delle indennità
risarcitorie stabilite dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1,
del decreto legislativo in esame sia dimezzato e non possa comunque
superare il limite massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni
anno di servizio.
Tale previsione si porrebbe anzitutto in
contrasto con l'art. 3, commi primo e secondo, Cost., in
quanto determinerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento tra
lavoratori dipendenti di datori di lavoro/imprese con più di quindici
occupati che, a seconda della gravità del vizio dell'atto espulsivo,
potrebbero fruire della tutela reintegratoria insieme a quella
indennitaria, ovvero della sola tutela monetaria, quantificabile però
fino alla rilevante misura di trentasei mensilità e lavoratori
dipendenti di datori di lavoro/imprese "sottosoglia" che, invece, oltre a
vedersi sempre preclusa la tutela reale, sarebbero destinatari di una
tutela indennitaria costretta in una forbice ridottissima, da tre a sei
mensilità, tale da non consentire al giudice di distinguere la tutela in
funzione del vizio, anche importante, che inficia l'atto espulsivo. Un
simile diverso trattamento, in quanto collegato all'esclusivo criterio
delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, dipenderebbe,
peraltro, da un elemento esterno al rapporto di lavoro, per giunta non
più idoneo, di per sé, a rivelare la forza economica del datore.
Nel prevedere il dimezzamento dell'indennità risarcitoria e il tetto
massimo delle sei mensilità, la norma censurata finirebbe, inoltre, per
trattare in modo sostanzialmente eguale anche i dipendenti di datori
di lavoro sottosoglia, disegnando una tutela standardizzata e tanto
ridotta da risultare incapace di confrontarsi con ipotesi connotate,
quanto al vizio attinente al licenziamento, anche in termini molto
diversi, senza consentire quindi una personalizzazione del risarcimento
in relazione alle circostanze del caso di specie, né garantirne
l'adeguatezza e congruità oltre che il ruolo deterrente.
L'art.
9, comma 1, del citato decreto legislativo sarebbe, inoltre, in
contrasto con l'art. 41, secondo comma, Cost., in quanto l'assenza di un
indennizzo adeguato a fronte di licenziamenti illegittimi
recherebbe danno alla libertà e alla dignità umana anche nella piccola
impresa e non solo in quella di grandi dimensioni.
Risulterebbe,
poi, violato l'art. 4, primo comma, Cost., là dove impone di rimuovere
gli ostacoli alla stabilità dell'occupazione tra i quali rileva, «in
modo preponderante», la previsione di una sanzione con efficacia
dissuasiva a fronte di provvedimenti espulsivi illegittimi, nonché
l'art. 35, primo comma, Cost., che prescrive la tutela del lavoro in
tutte le sue forme e applicazioni, rendendo necessaria l'esistenza di
una ragione giustificatrice alla base del recesso.
Infine, la
disposizione censurata sarebbe lesiva dell'art. 117, primo comma, Cost.,
in relazione all'art. 24 CSE, in quanto violerebbe il diritto dei
lavoratori licenziati senza un valido motivo, «ad un congruo indennizzo o
altra adeguata riparazione» e ad una tutela indennitaria «che abbia
un'idonea forza compensativa di quanto il lavoratore ha perso a causa
del licenziamento illegittimo e dissuasiva nei confronti del datore di
lavoro artefice dell'atto espulsivo viziato».
1.2.1. In punto
di rilevanza, il rimettente afferma di non poter definire il giudizio
pendente dinanzi a sé indipendentemente dalla risoluzione delle
questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs.
n. 23 del 2015, sollevate nei termini sopra indicati.
Posto che
il licenziamento, pur inficiato da illegittimità molto gravi, non
sarebbe nullo, la tutela applicabile sarebbe quella individuata
dall'art.18, quarto comma, statuto lavoratori, cui corrisponde,
nel regime delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015, la tutela reintegratoria
prevista dall'art. 3, comma 2. Tuttavia, il rimettente rileva che tale
tutela risulta erroneamente evocata, dato che è provato che la
società/datrice di lavoro non ha mai avuto più di 14 dipendenti.
Pertanto, il Tribunale si dichiara tenuto ad applicare la tutela che la
legge prevede a fronte del vizio in concreto riscontrato, come chiarito a
più riprese dalla Corte di cassazione (di cui vengono citati alcuni
arresti). Dal momento che il licenziamento per cui è causa
sarebbe affetto dal vizio procedimentale dell'omessa contestazione con
violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, dal mancato
assolvimento dell'onere di provare il fondamento dell'atto espulsivo,
nonché dall'insussistenza del fatto, il rimettente, a fronte
dell'assenza del requisito dimensionale, assume di dover applicare il
combinato disposto degli artt. 3 e 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, che, oltre a prevedere il dimezzamento della tutela indennitaria
rispetto a quella stabilita nel caso di licenziamenti nelle
imprese sopra soglia, ne fissa il limite massimo in sei mensilità: «ciò
che conferma la rilevanza della questione di legittimità
costituzionale».
Neppure sarebbe praticabile un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata, pure
sollecitata dalla parte ricorrente, in quanto l'art. 9, comma 1, del
d.lgs. n. 23 del 2015 sarebbe estremamente chiaro nella sua portata
letterale, prevedendo, in maniera inequivocabile, che l'indennità
parametrata a quella di cui agli artt. 3, comma 1, e 4, comma 1, del
medesimo decreto legislativo (per quanto qui interessa) sia dimezzata e,
comunque, non superi in alcun caso il limite delle sei mensilità.
In conclusione, il rimettente nel ribadire che l'esiguità
dell'intervallo tra l'importo minimo e quello massimo dell'indennità, da
un lato, e il solo richiamo al criterio anacronistico del numero dei
dipendenti, dall'altro, configurerebbero una normativa primaria
costituzionalmente illegittima sottolinea come questa Corte, già nella
sentenza n. 183 del 2022, abbia accertato tale vizio, pur dichiarando
l'inammissibilità delle questioni allora sollevate dal Tribunale
ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in considerazione
del rischio di uno sconfinamento nella sfera riservata alla
discrezionalità del legislatore, a causa delle plurime possibilità
esistenti nella scelta delle soluzioni normative elaborabili per
fronteggiare il vulnus evidenziato.
Nonostante tale
affermazione, il rimettente ricorda anche come la stessa sentenza n. 183
del 2022 abbia non solo messo in rilievo che l'apprezzamento
discrezionale del legislatore è comunque «vincolato al rispetto del
principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e
di trascurare la specificità del caso concreto» ma, conclusivamente,
abbia anche affermato di non poter «esimersi dal segnalare che un
ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e
la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente,
nonostante le difficoltà qui descritte».
Su tali premesse, il
rimettente ritiene che l'orizzonte temporale che questa Corte ha inteso
dare al legislatore per eliminare il vulnus riscontrato sia già
esaurito, considerato che l'inerzia di quest'ultimo si era protratta,
alla data dell'adozione dell'ordinanza di rimessione, per ben più di due
anni, e che la disciplina censurata si applica alla «quasi totalità
delle imprese nazionali» come emerge dagli ultimi dati
resi disponibili dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT)
nell'Annuario 2023 e alla «gran parte dei lavoratori», «di talché
l'urgenza di provvedere risulta francamente non ulteriormente
procrastinabile».
Pertanto, il rimettente chiede che venga
dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1,
del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «e l'ammontare
delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1,
dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato e non
può in ogni caso superare il limite di sei mensilità», con la
«conseguente spettanza della tutela indennitaria di cui agli artt. 3,
co. 1, 4, co. 1 e 6, co. 1 a seconda della fattispecie concreta anche
nel caso di datore di lavoro c.d. sottosoglia».
2. È
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha
chiesto che la questione di legittimità costituzionale dell'art.
9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia dichiarata inammissibile.
L'Avvocatura generale dello Stato ritiene che, poiché si lamenta
l'irrisorietà della determinazione dell'indennità, si rimetterebbe a
questa Corte «la possibile rideterminazione in diversa misura di
quanto previsto dal legislatore nell'esercizio del proprio potere
discrezionale». Posto che quest'ultima non può intervenire nelle ipotesi
in cui si tratti di scegliere tra più opzioni normative, tutte
ugualmente conformi a Costituzione, perché, così facendo, interferirebbe
nella sfera della discrezionalità del legislatore, anche ove dovesse
ritenere fondata la questione, «la presenza di diverse possibili opzioni
normative non consentirebbe alla stessa di colmare il vuoto normativo
determinato da una eventuale pronuncia di
illegittimità» costituzionale. L'Avvocatura generale dello Stato
puntualizza di non ignorare il precedente rappresentato dalla
sentenza n. 183 del 2022, nella quale il legislatore è stato invitato a
compiere una nuova valutazione sulla «scelta dei mezzi più congrui per
conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di "una
normativa di importanza essenziale" (sentenza n. 150 del 2020), per la
sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore,
scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico
complessivamente inteso». Tuttavia, rileva che, nella medesima
decisione, questa Corte ha evidenziato che «la materia di cui si
discute, "frutto di interventi normativi stratificati, non può che
essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri
distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la
funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie"».
Ad avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, inoltre, non potrebbe
dirsi sussistente quell'ulteriore «protrarsi dell'inerzia legislativa»
al quale questa Corte ha subordinato la possibilità di un proprio
intervento sulla materia in esame, «ove nuovamente investita». Pur non
risultando, allo stato, iniziative legislative di carattere
parlamentare, l'interveniente ricorda che, nelle more, è stata promossa
una iniziativa referendaria, ai sensi dell'art. 75 Cost., tendente
all'integrale abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015, che avrebbe indotto
il legislatore ad attendere l'esito della suddetta iniziativa
referendaria.
In definitiva, la questione di legittimità
costituzionale in esame sarebbe, dunque, inammissibile, per le medesime
ragioni già compiutamente indicate nella richiamata sentenza n. 183 del
2022. Peraltro, la scelta del legislatore di attendere l'esito
dell'iniziativa referendaria in corso, prima di esercitare la
sua discrezionalità in una materia così delicata quale quella in esame,
escluderebbe la stessa configurabilità di una inerzia protrattasi nel
tempo, tale da giustificare un ipotetico intervento caducatorio sulla
normativa attualmente vigente.
3. In applicazione dell'art. 6
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale, l'Associazione Comma2 - Lavoro è dignità ha depositato
una opinione, in qualità di amicus curiae, ammessa con decreto
presidenziale del 20 maggio 2025.
Nell'aderire agli argomenti
svolti nell'ordinanza, l'associazione ricorda come, al fine di rimediare
al vulnus accertato nella sentenza n. 183 del 2022, si fossero
ipotizzati, in dottrina, già due possibili tipi di intervento: il primo,
corrispondente a quello indicato dall'odierno rimettente, volto a far
venir meno sia il dimezzamento della misura delle indennità previste
dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, sia il limite massimo di sei mensilità; il secondo volto a far
venir meno solo il limite massimo delle sei mensilità, cosicché,
conservandosi la regola del dimezzamento dell'indennizzo, si
sarebbe potuta assicurare una tutela fissata entro un divario
ragionevole e tale da consentire al giudice di modulare in modo adeguato
la sua entità, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace
deterrenza, tenendo conto di vari criteri, fra cui, in un ruolo
preponderante, le dimensioni dell'attività economica del datore
di lavoro.
Considerato in diritto
1. Il
Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, con l'ordinanza
indicata in epigrafe (n. 240 reg. ord. 2024), dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015,
in riferimento agli artt. 3, commi primo e secondo, 4, primo comma, 35,
primo comma, 41, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo
in relazione all'art. 24 CSE.
1.1. Il rimettente ritiene che
tale disposizione, nel determinare l'indennizzo risarcitorio per
i licenziamenti illegittimi intimati da un datore di lavoro,
imprenditore o non imprenditore, che non raggiunga i requisiti
occupazionali stabiliti dall'ottavo comma dell'art. 18 statuto
lavoratori (e cioè che non occupi più di quindici lavoratori presso
un'unità produttiva o nell'ambito di un comune e che comunque non occupi
più di sessanta dipendenti), finisca per configurare una misura non
idonea a garantire il necessario equilibrio tra la possibilità di
prevedere una tutela solo di tipo risarcitorio-monetario e la necessità
che tale indennizzo risulti adeguato a riparare il pregiudizio sofferto
nel caso concreto, così mantenendo un ruolo deterrente. Tale effetto si
produrrebbe, in ispecie, là dove il citato art. 9, comma 1, del d.lgs.
n. 23 del 2015, delimita l'indennizzo, sia disponendo il dimezzamento
delle somme stabilite dai precedenti artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6,
comma 1, del medesimo decreto legislativo, sia imponendo un tetto
massimo insuperabile fissato in sei mensilità dell'ultima retribuzione
di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni
anno di servizio.
In tal modo, la disposizione censurata sarebbe
lesiva dell'art. 3, commi primo e secondo, Cost., in quanto finirebbe
per disegnare una tutela standardizzata e inidonea a coprire fattispecie
di licenziamento connotate da vizi di differente gravità, trattando in
modo sostanzialmente eguale anche situazioni concrete molto diverse,
senza consentire la «personalizzazione» del risarcimento in relazione
alle circostanze del caso di specie, né garantirne l'adeguatezza e la
congruità oltre che la funzione deterrente. La medesima violazione è
contestata anche sotto l'ulteriore profilo del trattamento
irragionevolmente diverso di situazioni simili: da un lato, quella dei
dipendenti di datori di lavoro con più di quindici occupati, i quali,
ove colpiti da licenziamento illegittimo, dispongono di una tutela
graduata a seconda della gravità del vizio; dall'altro, quella dei
dipendenti di un datore di lavoro con meno di quindici occupati, che
invece, quando risultino anch'essi vittime di provvedimento espulsivo
illegittimo, possono usufruire di una tutela indennitaria costretta in
una forbice ridottissima, da tre a sei mensilità. Quest'ultima
impedirebbe al giudice di calibrare il risarcimento in funzione della
gravità del vizio che inficia il licenziamento, e ciò in applicazione di
un criterio quello delle dimensioni occupazionali del datore di
lavoro riferito a un profilo esterno al rapporto di lavoro, peraltro
non più idoneo, di per sé, a rivelare la reale forza economica del
datore medesimo.
Per le stesse ragioni sarebbe anche violato
l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 24 CSE cui
questa Corte ha ormai più volte riconosciuto l'attitudine «a valere come
parametro interposto ex art. 117, primo comma, Cost.» (sentenza n. 7
del 2024) essendo leso il diritto dei lavoratori, licenziati senza
un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.
Sarebbero, di conseguenza, violate anche la dignità e libertà del
lavoratore che costituiscono un limite all'iniziativa economica privata
ex art. 41, secondo comma, Cost. Sarebbero lesi, infine, gli artt. 4 e
35 Cost., i quali, imponendo di tutelare il lavoro in tutte le sue
forme, prescriverebbero un congruo indennizzo, anche per dissuadere il
datore di lavoro dall'adottare licenziamenti illegittimi.
1.2.
Sebbene le censure siano formulate in riferimento a parametri diversi,
esse presentano un nucleo comune unitario che si svela nella identità o,
comunque, nella reciproca implicazione degli argomenti svolti a loro
sostegno e induce a esaminarle come profili di un'unica questione.
Quest'ultima può sintetizzarsi nell'asserita irragionevole limitazione
della tutela indennitaria prevista per i licenziamenti illegittimi
intimati dai datori di lavoro "sottosoglia" lesiva del diritto del
lavoratore a un indennizzo adeguato a difenderne dignità e libertà. Per
rimuovere l'offesa ai suddetti beni presidiati dai parametri evocati, il
rimettente chiede che venga dichiarata l'illegittimità costituzionale
sia della previsione del dimezzamento delle indennità di cui agli artt.
3, comma 1, 4, comma 1 e 6, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sia del
limite massimo delle sei mensilità dell'ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni
anno di servizio.
2. La questione è fondata in riferimento a
tutti i parametri indicati, limitatamente, tuttavia, alla previsione in
base alla quale l'ammontare delle indennità risarcitorie di cui agli
artt. 3, comma 1, 4, comma 1 e 6, comma 1, «non può in ogni caso
superare il limite di sei mensilità» dell'ultima retribuzione
di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni
anno di servizio.
2.1. Fin da tempo risalente, questa Corte ha
ricondotto la tutela contro i licenziamenti illegittimi agli artt. 4 e
35 Cost. e alla configurazione ivi tratteggiata del diritto al lavoro
quale «fondamentale diritto di libertà della persona umana» (sentenza n.
45 del 1965), tale da imporre al legislatore di circondare di «doverose
garanzie» per il lavoratore e «di opportuni temperamenti» (ancora
sentenza n. 45 del 1965) il recesso del datore di lavoro, garantendo
così il diritto del lavoratore «a non essere estromesso dal
lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991).
A tutela di tale diritto, fino al 2012, era stata riconosciuta in
maniera generalizzata la tutela reintegratoria, sebbene solo nel caso di
licenziamenti illegittimi intimati in presenza dei
requisiti occupazionali di cui ai commi ottavo e nono dell'art. 18 della
legge n. 300 del 1970. Successivamente, nell'ambito di radicali riforme
del regime dei licenziamenti, il raggio applicativo della tutela in
discorso è stato progressivamente ridotto. Il ridimensionamento di
quest'ultima è avvenuto per effetto dapprima dell'art. 1, comma 42,
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) e poi del d.lgs.
n. 23 del 2015, che l'ha circoscritta a ipotesi tassative per tutti i
datori di lavoro, facendo invece assumere portata generale alla tutela
indennitario-monetaria.
Tale mutamento di impostazione dei
modelli di tutela del lavoro, in relazione ai licenziamenti
illegittimi, riflette scelte che come questa Corte ha più volte
ricordato sono rimesse alla discrezionalità del legislatore, «in
rapporto ovviamente alla situazione economica generale» (sentenza n. 194
del 1970), considerato che «quello della tutela reale non costituisce
l'unico paradigma possibile (vedi sentenza n. 46 del 2000)» (sentenza
n.7 del 2024). Non a caso l'obbligatorietà di una simile tutela è stata
esclusa dalla legge senza che ciò configurasse una violazione della
Costituzione nell'ipotesi di licenziamenti illegittimi da parte di un
datore di lavoro/impresa che non raggiungesse i requisiti occupazionali
indicati dall'art. 18, commi ottavo e nono, statuto lavoratori, in
ispecie in considerazione della natura fiduciaria del rapporto di lavoro
nell'ambito delle descritte realtà organizzative e della necessità di
evitare le tensioni che l'esecuzione di un ordine di reintegrazione
potrebbe ingenerare, oltre che dell'opportunità di non gravarle di oneri
eccessivi (sentenze n. 2 del 1986, n. 152 e n. 189 del 1975).
Proprio con riferimento al d.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte ha
ritenuto compatibile con la Carta fondamentale una tutela meramente
monetaria, purché improntata ai canoni di effettività e di
adeguatezza, rilevando che il bilanciamento dei valori sottesi agli
artt. 4 e 41 Cost., «terreno su cui non può non esercitarsi la
discrezionalità del legislatore», non impone «un determinato regime di
tutela» (sentenza n. 194 del 2018). In altri termini, il legislatore ben
può, nell'esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo
di tutela contro i licenziamenti illegittimi anche solo
risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), a condizione,
tuttavia, che tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di
ragionevolezza e muova dalla considerazione che il licenziamento
illegittimo, ancorché «idoneo a estinguere il rapporto di lavoro,
costituisce pur sempre un atto illecito» (sentenza n. 194 del 2018).
In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento
traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria deve
essere configurata in modo tale da consentire al giudice di modularla
alla luce di una molteplicità di fattori (numero dei dipendenti
occupati, dimensioni dell'impresa, anzianità di servizio del prestatore
di lavoro, comportamento e condizioni delle parti) al fine di soddisfare
l'«esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, [...]
imposta dal principio di eguaglianza» (ancora sentenza n. 194 del
2018).
Pertanto, con la pronuncia da ultimo citata, questa Corte
ha affermato che «[l]a previsione di una misura risarcitoria uniforme,
indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei
licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un'indebita
omologazione di situazioni che possono essere e sono, nell'esperienza
concreta diverse», in violazione, quindi, del principio di
eguaglianza.
Pur nel riconoscimento dell'ampia discrezionalità
spettante al legislatore, la predeterminazione dell'indennità
risarcitoria deve tendere, con ragionevole approssimazione, ma sempre
nel rispetto del dettato costituzionale, a rispecchiare la specificità
del caso concreto e quindi la vasta gamma di variabili che
vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Non può,
pertanto, discostarsene in misura apprezzabile, come può avvenire quando
si adotta un meccanismo rigido e uniforme (sentenza n. 150 del 2020).
2.2. Tali indicazioni inerenti alla ragionevolezza e adeguatezza
della tutela indennitaria si impongono anche per i licenziamenti
intimati dai «datori di lavoro di più piccole dimensioni» (sentenza n.
183 del 2022), in quanto caratterizzati da requisiti occupazionali più
ridotti rispetto a quelli contemplati dai citati commi ottavo e nono
dell'art. 18 statuto lavoratori.
L'assunto conserva significato pur a fronte delle modifiche di sistema apportate dal d.lgs. n. 23 del 2015.
È vero che quest'ultimo, da un lato, ha fortemente circoscritto lo
spazio di operatività della tutela reintegratoria piena rendendola
applicabile, in specifici e tassativi casi, senza alcuna distinzione
riferita ai requisiti occupazionali e, dall'altro, ha generalizzato la
tutela indennitaria anche per i datori di lavoro di maggiori
dimensioni.
Tuttavia, ai fini della selezione della disciplina
dei licenziamenti, e in linea di continuità con il passato (sentenza n.
44 del 2024), è stata comunque confermata la rilevanza della dimensione
dell'impresa, in termini di numero di lavoratori occupati, anche con
riguardo alla determinazione dell'indennità risarcitoria.
In
particolare, proprio per il caso in cui il datore di lavoro non
raggiunga i requisiti dimensionali più volte ricordati, l'art. 9, comma
1, del citato decreto legislativo, censurato dal giudice rimettente, per
un verso, ha escluso la tutela reintegratoria attenuata prevista per i
casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta
causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del
fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, comma 2); per altro
verso, ha stabilito che «è dimezzato e non può in ogni caso superare il
limite di sei mensilità» l'ammontare delle indennità e dell'importo
previsti nei casi di licenziamento: (a) senza giustificato motivo o
giusta causa (per il quale l'art. 3, comma 1, prevede un importo di
«misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei
mensilità»); (b) inficiato da vizi formali o procedurali (in conseguenza
del quale l'art. 4, comma 1, consente di conseguire un importo
di «misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici
mensilità»); (c) al quale segua l'offerta di conciliazione e
l'accettazione dell'assegno da parte del lavoratore illegittimamente
licenziato (ipotesi per la quale l'art. 6, comma 1, contempla un
«ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in
misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette
mensilità»).
2.2.1. Questa Corte, nella sentenza n. 183 del
2022, si è già pronunciata su tali previsioni, ravvisandovi la
sussistenza di un vulnus agli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e
117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 24 CSE.
La lesione dei richiamati parametri costituzionali (che sono gli stessi
oggi evocati dal Tribunale di Livorno) si è, infatti, rinvenuta in
ragione dell'«esiguità dell'intervallo tra l'importo minimo e
quello massimo dell'indennità» («tra un minimo di tre e un massimo di
sei mensilità», in riferimento a quanto previsto dall'art. 3, comma 1,
del d.lgs. n. 23 del 2015), poiché essa «vanifica l'esigenza di
adeguarne l'importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella
prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza», alla
luce di «tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa
Corte», concorrendo a configurare il licenziamento come extrema ratio.
Peraltro, si è anche osservato che «il limitato scarto tra il minimo e
il massimo determinati dalla legge» trova la sua principale (se non
esclusiva) giustificazione nel numero ridotto dei dipendenti che
non rispecchia più, isolatamente considerato, l'effettiva forza
economica del datore di lavoro, specie «in un quadro dominato
dall'incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei
processi produttivi», in cui «al contenuto numero di occupati possono
fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume
di affari». E ancora si è sottolineato che «[i]l limite uniforme e
invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro
imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro
eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati,
sprovvisto di per sé di una significativa valenza».
In
definitiva, si è concluso che un simile sistema «non attua
quell'equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che
rappresenta la funzione primaria di un'efficace tutela indennitaria
contro i licenziamenti illegittimi».
A tale vulnus, tuttavia,
questa Corte ha ritenuto allora di non poter porre rimedio, giacché
le argomentazioni addotte dal rimettente prefiguravano «una vasta gamma
di alternative» volte a ridisegnare il regime speciale previsto per i
datori di lavoro di piccole dimensioni, a partire dalla stessa
individuazione dei criteri di identificazione di questi ultimi.
Si era, pertanto, segnalata la necessità che la materia, «frutto di
interventi normativi stratificati», fosse «rivista in termini
complessivi», ben potendo il legislatore «tratteggiare criteri
distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul
requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze
tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati
in cui esse operano». Tuttavia, si era, comunque, affermato che un
ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe stato
tollerabile e, ove la questione fosse stata nuovamente sollevata, questa
Corte sarebbe stata indotta a «provvedere direttamente, nonostante le
difficoltà qui descritte».
2.2.2. Il Tribunale di Livorno
ripropone all'attenzione di questa Corte i dubbi di
legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, in riferimento ai medesimi parametri esaminati nella sentenza n.
183 del 2022, in considerazione del quadro normativo immutato a distanza
di più di due anni dalla citata pronuncia e della circostanza che la
disciplina sub iudice di cui si era accertata la non compatibilità con
i richiamati parametri costituzionali si applica, come emerge dai
dati ISTAT (Annuario 2023), alla «quasi totalità delle imprese
nazionali» e quindi alla «gran parte dei lavoratori».
Il
rimettente denuncia l'esiguità dell'intervallo tra l'importo minimo e
quello massimo dell'indennità risarcitoria, effetto della contestuale
previsione del dimezzamento degli importi indicati agli artt. 3,
comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del citato d.lgs. n. 23 del 2015, «in
uno con la previsione di un tetto massimo [...] limitato ("sei
mensilità")», tale da non consentire di soddisfare i criteri di
personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento, e di
garantirne la funzione deterrente. Chiede pertanto che venga eliminato
tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico
del datore di lavoro con un numero limitato di dipendenti, in vista
della riespansione della tutela indennitaria "ordinaria" e del
potere discrezionale del giudice di determinarne l'ammontare alla luce
dei vari criteri. Tra questi, quello del numero dei dipendenti occupati
costituisce sicuramente il primo, ma non l'unico, dovendo
essere considerato insieme alle dimensioni dell'impresa, oltre che
all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro e al comportamento e
alle condizioni delle parti.
Ciò sul presupposto che la
richiamata tutela indennitaria speciale non possa trovare
giustificazione solo nel numero limitato dei dipendenti, non essendo più
tale criterio, isolatamente considerato, sufficiente a rivelare, sempre
e comunque, la minore forza economica del medesimo datore. Si tratta di
una prospettiva allineata non solo alla normativa europea anche
risalente (raccomandazione CE 2003/361 della Commissione, del 6 maggio
2003, relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie
imprese; di recente, direttiva delegata (UE) 2023/2775 della
Commissione, del 17 ottobre 2023, che modifica la direttiva 2013/34/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda gli
adeguamenti dei criteri dimensionali per le microimprese e le imprese o i
gruppi di piccole, medie e grandi dimensioni) , ma anche alla
normativa interna, pur relativa ad altri ambiti (art. 1, comma 2, del
decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, recante «Riforma organica
della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1,
comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80»; più di recente, art. 2 del
decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, recante «Codice della crisi
d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017,
n. 155»). Il rimettente, in altri termini, ravvisa la reductio ad
legitimitatem non già come era accaduto nel caso oggetto della
sentenza n. 183 del 2022 in interventi sostitutivi, atti a incidere
sui criteri di individuazione del datore di lavoro "piccolo" (cioè
dotato di una ridotta forza economica), in assenza di utili punti
di riferimento normativo, bensì nel mero annullamento della disciplina
speciale stabilita dalla norma censurata per i licenziamenti illegittimi
intimati da datori di lavoro con un numero limitato di dipendenti.
L'obiettivo, in sostanza, è quello di eliminare la rigidità e la
tendenziale uniformità nella determinazione dell'indennità risarcitoria,
già dimezzata rispetto a quella ordinariamente prevista, quale che sia
il vizio che affligge il licenziamento.
2.2.3. Il tempo
trascorso e, soprattutto, la formulazione dell'odierna questione che
non mira a un intervento altamente manipolativo, volto a ridisegnare la
tutela speciale per i datori di lavoro sotto soglia in assenza di punti
di riferimento univoci, ma solo a eliminare la significativa
delimitazione dell'indennità risarcitoria impongono a questa Corte di
pronunciarsi, dichiarando il già accertato vulnus ai
principi costituzionali.
Tale vulnus, tuttavia, non si ravvisa
nella previsione del dimezzamento degli importi delle indennità previste
dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del medesimo d.lgs.
n. 23 del 2015, modulabili all'interno di una forbice, diversamente
individuata in relazione a ciascun tipo di vizio, ma
sempre sufficientemente ampia e flessibile, perché compresa fra un
minimo e un massimo, tra i quali c'è un ampio divario. Così delineato,
infatti, il meccanismo del dimezzamento è comunque tale da non impedire
al giudice di tener conto della specificità di ogni singola vicenda,
nella prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza, e
di fare applicazione dei criteri indicati da questa Corte, fra i quali
quello delle dimensioni dell'attività economica del datore di lavoro
svolge un ruolo certamente rilevante, ma senz'altro non esclusivo, «nel
contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco»
(sentenza n. 150 del 2020), inerenti, da un lato, alla tutela del
lavoratore contro licenziamenti ingiustificati, dall'altro, all'esigenza
di non gravare di costi eccessivi i piccoli datori di lavoro.
Quel che confligge con i principi costituzionali, dando luogo a una
tutela monetaria incompatibile con la necessaria «personalizzazione del
danno subito dal lavoratore» (sentenza n. 194 del 2018), è
piuttosto l'imposizione di un tetto, stabilito in sei mensilità di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e
insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi
forme di illegittimità, che comprime eccessivamente l'ammontare
dell'indennità.
Tale significativo contenimento delle
conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro che si impone
sul limite massimo specificamente previsto in relazione a ciascun tipo
di vizio e già oggetto di dimezzamento con riguardo ai datori di lavoro
con un numero limitato di dipendenti, per effetto del medesimo art. 9,
comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 delinea un'indennità stretta in un
divario così esiguo (ad esempio, da tre a sei mensilità nel caso dei
licenziamenti illegittimi di cui all'art. 3, comma 1, del citato decreto
legislativo) da connotarla al pari di una liquidazione legale
forfetizzata e standardizzata. Ma una siffatta liquidazione è stata già
ritenuta da questa Corte inidonea a rispecchiare la specificità del
caso concreto e quindi a costituire un ristoro del pregiudizio sofferto
dal lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del
principio di eguaglianza. Tale ristoro può essere delimitato, ma non
sacrificato neppure in nome dell'esigenza di prevedibilità e di
contenimento dei costi, al cospetto di un licenziamento illegittimo che
l'ordinamento, anche nel peculiare contesto delle piccole realtà
organizzative, qualifica comunque come illecito (sentenza n. 150 del
2020).
Deve, pertanto, dichiararsi l'illegittimità
costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il
limite di sei mensilità».
Resta fermo l'auspicio che il
legislatore intervenga sul profilo inciso dalla presente pronuncia,
nel rispetto del principio, qui affermato, secondo cui il criterio del
numero dei dipendenti non può costituire l'esclusivo indice rivelatore
della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità
dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare
anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il
fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari
elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale,
richiamata in precedenza (punto 2.2.2.).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alle
parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2025. F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice
Valeria EMMA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2025
Il Cancelliere
F.to: Valeria EMMA
***
Profilo autore
(Giovanni Dami)
LaPrevidenza.it, 25/07/2025