venerdì, 08 novembre 2024

Jobs Act e licenziamento nel contratto di lavoro a tutele crescenti

Avvocato Daniela Carbone

 

IL LICENZIAMENTO NEL CONTRATTO DI LAVORO A TUTELE CRESCENTI 


(Avv. Daniela Carbone)

 

1. Premessa

 

Il 6 marzo 2015 sono stati pubblicati in Gazzetta ufficiale (Serie Generale n. 54 del 6.3.2015) i primi due decreti legislativi in materia l'uno di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (d.lgs. n. 4 marzo 2015, n. 23) e l'altro contenente disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria (d.lgs. n. 4 marzo 2015, n. 22).

 

La legge 183 del 2014, c.d. "Jobs act" (in GU 290 del 15.12.2014), contiene cinque deleghe al Governo che dovrà, in sei mesi (ma lacune di esse hanno per l'appunto già avuto attuazione), intervenire in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e di conciliazione.

 

Il 24 dicembre 2014 il Governo ha varato lo "Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183".

 

La delega sulla riforma dei contratti è quella che ha calamitato l'attenzione generale, poiché va ad incidere sullo Statuto dei lavoratori, ed in particolare l'art. 4 in materia di controllo a distanza dei lavoratori, l'art. 13 relativo alle mansioni del lavoratore e l'art. 18 sui licenziamenti.

 

Con la riforma in esame si punta a promuovere il contratto a tempo indeterminato attraverso misure che lo rendano più conveniente rispetto ad altre tipologie contrattuali.

 

La legge n. 183 del 2014, all'art. 1, c. 7, lett. c), delega il Governo a riformare la disciplina dei licenziamenti nel rispetto del seguente criterio direttivo: "previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento".  Il contratto a tutele crescenti, ovvero tutele che cresceranno in relazione all'anzianità di servizio, prevede per i neo assunti una modifica del regime di tutela in caso di licenziamento, regolato dall'art.18 dello statuto dei lavoratori. Al lavoratore verrà pagato un indennizzo economico crescente in base all'anzianità di servizio, con un limite di 24 mensilità. Il reintegro nel posto di lavoro scatterà solo per i licenziamenti discriminatori, per quelli nulli e per una fattispecie limitata di licenziamenti disciplinari  1 (quando cioè il fatto materiale contestato è insussistente, senza alcuna valutazione sulla sproporzione del licenziamento).  La delega, in ordine ai destinatari della nuova regolamentazione, contiene un riferimento di tipo soggettivo (individuati nei neoassunti), ed uno di tipo oggettivo, attinente all'introduzione delle nuove tutele in caso di vizio dell'atto di risoluzione del rapporto.  Nei confronti dei nuovi assunti (dal 1 marzo 2015), la linea fatta propria dall'esecutivo, nella prosecuzione del cammino già avviato dalla legge n. 92/2012, è diretta verso la progressiva eliminazione della reintegrazione, introducendo un sistema di tutela economica, crescente in base all'anzianità del lavoratore.  A differenza di quanto operato nel 2012 con la Riforma c.d. Fornero, il legislatore ha inteso introdurre il nuovo sistema di tutela ponendo come discrimine, tra la nuova e la vecchia disciplina, non la data dell'intimato recesso, bensì quella dell'assunzione, con contratto a tempo indeterminato, del lavoratore.  Questa scelta è destinata ad introdurre una evidente disparità di trattamento tra i lavoratori, disparità che, diversamente da quanto accaduto fino ad ora, non dipende dalla consistenza numerica aziendale, dalla natura del datore di lavoro o dalla tipologia della prestazione dedotta in contratto, bensì da una condizione soggettiva del lavoratore, coincidente con la data di assunzione.  Inevitabili saranno le disparità di trattamento che verranno a determinarsi e, di conseguenza, le eccezioni di incostituzionalità, per violazione dell'art. 3 Cost., che saranno proposte ai Giudici investiti sull'impugnazione dei licenziamenti.  Accadrà, infatti, che due licenziamenti, intimati nello stesso momento e nell'ambito della medesima unità produttiva, affetti dal medesimo vizio, saranno tutelati in base a due diversi regimi, qualora uno dei due lavoratori sia stato assunto dopo l'entrata in vigore del decreto in commento. 

 

2. ­ Ambito operatività disciplina jobs act.  L'art.1, del d.lgs. n. 23 del 2015, prevede che la nuova disciplina sul licenziamento illegittimo, si applichi ai lavoratori con qualifica di operai, impiegati e quadri assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo (approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 20.2.2015 e pubblicato in G.U. del 6.3.15), e quindi dal 7 marzo 2015.  Per i lavoratori assunti prima dell'entrata in vigore del decreto in esame, restano valide le norme precedenti. La nuova normativa, però, si applica anche ai lavoratori assunti precedentemente all'entrata in vigore di tale decreto (art.1, comma 3) allorché il datore di lavoro integri, successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo, i requisiti occupazionali di cui all'art. 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970. Quest'ultima previsione eccede la delega ma l'intento è evidentemente quello di incentivare le assunzioni evitando che il superamento del limite di soglia comporti, in caso di licenziamento illegittimo, l'applicazione della reintegra.

 La nuova disciplina si applica anche ai sindacati e ai partiti politici. 

 

3. ­ Le tutele  Entrato in vigore il d.lgs. 23/2015 si avranno tre tipi di tutele basate:  1)Sull'art. 18, l. n 300/70 nei confronti delle imprese che già ne erano soggette (c.d.  tutela forte);  2)Sul decreto legislativo n. 23 del 2015 per i datori di lavoro che superano limite dei  15 dipendenti dopo il 7 marzo 2015;  3)Sull'art. 8, l. 604/66 (c.d. tutela debole ­ tutela obbligatoria) su cui è pure  intervenuto l'art. 9 del decreto in esame, evidenziando anche in tal caso un eccesso di  delega.  La convivenza di questi due diversi regimi dovrà continuare fino all'esaurimento dei casi soggetti al vecchio testo dell'art. 18 così come riformato dalla Riforma Fornero.  Sarebbe (de iure condendo) auspicabile un esaurimento anticipato di questa convivenza di discipline, soprattutto in virtù del principio di parità di trattamento.  Allo stato si avranno, infatti, dipendenti che, per lo stesso fatto nel medesimo posto di lavoro, subiranno un diverso trattamento ed avranno anche un rito diverso, in quanto il Rito Fornero, previsto dall'art. 1, comma 47, l. 92/2012, continuerà ad applicarsi per i lavoratori assunti prima dell'entrata in vigore del decreto in esame mentre, per quelli assunti dal 7 marzo 2015, tornerà ad applicarsi il rito ordinario del lavoro, essendo espressamente previsto dall'art. 11 del decreto legislativo l'inapplicabilità del rito Fornero ai licenziamenti di cui al decreto in esame.  Tale previsione d'inapplicabilità del rito Fornero al contratto a tutele crescenti è del tutto irrazionale, considerando i minori tempi di durata del contenzioso soggetto al rito Fornero e la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori assunti precedentemente. Ciò significa che, qualora si decida di fare un ricorso collettivo, occorre fare attenzione alla data di assunzione dei ricorrenti, poiché si rischia l'inammissibilità del ricorso presentato con rito Fornero, applicabile solo ad alcuni, e viceversa. La previsione di un differente rito dinanzi l'autorità giudiziaria, oltre ad essere illegittima per eccesso di delega, viola il principio di uguaglianza dovendo i lavoratori avere lo stesso rito.  La ratio della nuova disciplina del jobs act è sicuramente quella di "stabilizzare l'occupazione". Se precedentemente all'entrata in vigore del jobs act la reintegra era ritenuta la regola in caso di licenziamento illegittimo, da un esame sostanziale della nuova disciplina, è evidente quanto siano numericamente inferiori i casi di reintegra rispetto a quelli di risarcimento del danno.

 

  4. - Jobs act e licenziamenti collettivi.  La nuova disciplina e le relative sanzioni si applicheranno anche ai licenziamenti collettivi, poiché la delega fa riferimento genericamente ai licenziamento economici ed il licenziamento collettivo è un licenziamento economico per eccellenza .  3  Per i licenziamenti collettivi l'art 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 stabilisce che, in caso di violazione delle procedure e dei criteri di scelta, si applica sempre il regime dell'indennizzo monetario già previsto per i licenziamenti individuali (da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità). Sono state così disattese le richieste delle Commissioni lavoro di camera e Senato, le quali si erano pronunciate per l'esclusione dal jobs act dei licenziamenti collettivi.  Rispetto alla riforma Fornero c'è un peggioramento di tutele nell'ipotesi di violazione di regole procedurali, atteso che la sanzione è meramente indennitaria mentre la reintegra viene prevista solo qualora non venga osservato il requisito della forma scritta nell'intimazione del recesso al singolo lavoratore (ipotesi nella realtà assai remota). I vizi relativi a tutte le altre comunicazioni della procedura di licenziamento collettivo ex art. 4, l. 223/1991 determineranno l'applicazione di una tutela meramente risarcitoria.  Il diverso regime normativo, a seconda della diversa data di assunzione, è applicabile anche ai licenziamenti collettivi, per cui si arriverà al paradosso che, a fronte della stessa procedura collettiva e dello stesso vizio di illegittimità, a seconda della diversa data di assunzione, un dipendente venga reintegrato ed un altro venga solo risarcito.

 

 5. ­ Le tipologie di licenziamento.  Attualmente la materia dei licenziamenti è divisa per tipologie:  - Economici;  - Disciplinari;  - Discriminatori.  I licenziamenti economici, che possono essere individuali o collettivi, sono quelli non legati al cattivo andamento dell'impresa (e non ad un comportamento del lavoratore), e sulla base del numero dei dipendenti occupati e di quelli interessati dall'esubero, e sono disciplinati dall'art. 3 della legge 604/66 e dalla legge 223/91, norma che prevede: "Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso e' determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa".  I licenziamenti disciplinari sono sia quelli determinati da giusta causa ex art. 2119 c.c. che quelli derivanti da giustificato motivo soggettivo ex art. 3, l. 604/1966. Il licenziamento disciplinare è frutto di una creazione dottrinale, consacrata poi dalla giurisprudenza. La lacuna normativa è stata finalmente colmata con la legge delega n. 183/2014 all'art. 1, c. 7, lett. c), laddove prevede espressamente che la tutela reintegratoria sarà limitata ad alcune specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.  I licenziamenti discriminatori sono quelli determinati per motivi attinenti alla sfera sessuale, religiosa, sindacale...nonché quelli nulli ad essi equiparati (i licenziamenti ritorsivi e quelli intimati durante il matrimonio o la maternità). 

 

 6. ­ I datori di lavoro soggetti a tutela c.d. obbligatoria.

Per quanto riguarda i datori di lavoro soggetti alla tutela c.d. obbligatoria (art. 9 del decreto), ovvero coloro che hanno in forza fino a 15 lavoratori nel comune (o più di 60 in ambito nazionale), in caso di licenziamenti disciplinari ed economici illegittimi quasi nulla dovrebbe cambiare poiché la disciplina attuale prevede la scelta per il datore di lavoro di reintegrare il lavoratore oppure di risarcirlo con un'indennità da 2,5 a 6 mensilità, che possono diventare 10 o 14 mensilità in caso di anzianità rispettivamente di 10 o 20 anni.  Quello che andrà a mutare sarà il minimale della tutela in esame, atteso che l'art. 8, l. 604/1966 prevede due mensilità mentre l'art. 9 del decreto, facendo riferimento al dimezzamento dei termini di cui all'art. 3, comma 1, art. 4, comma 1 ed art. 6, comma 1, finisce per prevedere una mensilità. Tale innovazione costituisce certamente un eccesso di delega poiché non era prevista nella legge delega alcuna modifica del regime di tutela obbligatoria.  L'art. 8, l. 604/66, comunque, è da ritenersi ancora vigente in mancanza di un'espressa abrogazione ed il riferimento del citato art. 8 alla maggiorazione dell'indennità fino a 10 e 14 mensilità in base all'anzianità di servizio (10 o 20 anni), va ritenuto come una disciplina speciale derogatoria di quella ordinaria.  Rimane ferma, anche sotto i 15 dipendenti, la tutela reintegratoria ex art. 2 dello schema di decreto ed art. 18, comma 1, St. Lav., in caso di licenziamento verbale, discriminatorio, ritorsivo e nullo.  Altra innovazione per le piccole imprese (sotto i 15 dipendenti) è la previsione della tutela solo risarcitoria in caso di omessa comunicazione dei motivi di licenziamento, ex art. 4 del decreto ("Vizi formali e procedurali").  Con la riforma Fornero, solo le imprese soggette a tutela reale ex art. 18 St. Lav. avevano avuto la previsione di tutela risarcitoria in analoga fattispecie mentre per le piccole imprese, applicandosi comunque l'art. 2, l. 604/1966, il licenziamento era inefficace.  La normativa è stata riportata ad uniformità in entrambi i casi di tutela (obbligatoria e reale), con previsione di tutela meramente obbligatoria per omessa comunicazione dei motivi di licenziamento. Tuttavia, essendo il nuovo decreto applicabile solo ai neoassunti, continuerà ad esserci difformità di trattamento per la medesima fattispecie fino ad esaurimento del regime transitorio di "convivenza" delle due normative.

 

  7. ­ I datori di lavoro soggetti alla tutela reale  La riforma introdotta dal d.lgs. n. 23 del 2015 ha invece modificato le conseguenze dei licenziamenti illegittimi per coloro che ricadono nella tutela c.d. reale. A tali datori di lavoro si applicano le conseguenze previste dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l. n. 300/70), così come profondamente modificato dapprima dalla Legge Fornero, la quale, a fronte dell'originaria previsione di tutela basata sulla reintegra e sulla condanna al pagamento delle retribuzioni dal licenziamento all'effettiva reintegra, ha introdotto conseguenze differenti in base alla gravità dell'insussistenza delle motivazioni addotte dal datore di lavoro per giustificare il licenziamento:

 

 A) nel licenziamento disciplinare: a) indennità da 12 a 24 mensilità con risoluzione  del rapporto;b) in caso di insussistenza del fatto contestato o se il CCNL o il  codice disciplinare prevedano una sanzione conservativa, il giudice dispone la  reintegra e indennità risarcitoria fino a 12 mensilità;  

B) nel licenziamento economico individuale, conseguenze analoghe, mantenendo  la reintegra solo quando la causa risulti manifestamente insussistente.  Quest'ultima previsione ha indubbiamente generato non poche difficoltà  interpretative poiché lascia ampio margine di discrezionalità al giudice di merito,  con esposizione a linee interpretative della giurisprudenza. 

 

8. ­ Licenziamento illegittimo ed indennizzo economico  Il d.lgs. n. 23 del 2015 andrà ad incidere sulle conseguenze sopra descritte, poiché unica tutela sarà l'indennizzo economico, salvo alcune eccezioni.  In particolare, di ciò se ne occupa l'art. 3 d.lgs. 23 del 2015, relativo a "licenziamento per giustificato motivo e giusta causa": 

- ART 3, comma 1: Allo scopo di ridurre ulteriormente il margine di "decisione" e, quindi, arginare il potere decisionale dei giudici sulla misura del risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo per motivi disciplinari o economici, la riforma ha previsto una tutela essenzialmente risarcitoria, con venir meno della reintegra in caso di licenziamento illegittimo ed estinzione del rapporto alla data del licenziamento.  Nelle ipotesi in cui si riscontri (art. 3, comma 1) che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ad esempio, mancata soppressione del posto di lavoro, mancato repechage, ecc.), o di natura disciplinare (notevole inadempimento nella prestazione lavorativa) o giusta causa (quella che non consente la continuazione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro), o nell'ipotesi di risoluzione del rapporto anche caratterizzate da una sostanziale sproporzione tra ciò che è stato accertato e la sanzione espulsiva applicata, il nuovo indennizzo a natura risarcitoria, esente da contribuzione, avrà un importo variabile in base unicamente all'anzianità di servizio (due mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, da un minimo di 4 mensilità ad un massimo di 24 mensilità), con evidente totale venir meno di ogni discrezionalità da parte degli organi giudiziari.  In pratica, il legislatore ha tentato di tipizzare le varie cause di licenziamento per ridurre il potere discrezionale del giudice.  A fronte di tale certezza della sanzione applicabile, va rilevato che la riforma del licenziamento così come prevista dal decreto in esame contrasta con il principio della certezza del diritto, atteso che cade nel nulla l'utilità dell'affissione del codice disciplinare nei luoghi di lavoro, allorché la proporzionalità non è più contemplata.  Il limite minimo delle quattro mensilità rappresenta un deterrente nei confronti dei datori di lavoro, i quali, una volta ottenuto l'esonero contributivo per l'assunzione di un lavoratore a tempo indeterminato a tutele crescenti (per un massimo di 8.060 euro sulla quota contributiva a loro carico, riconosciuta per tre anni, limitatamente ai rapporti di lavoro instaurati nel 2015), intendessero risolvere il rapporto "ante tempus", magari lucrando sulla riduzione contributiva.

 - ART. 3, comma 2: prevede l'unica ipotesi di reintegra nei casi di licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (licenziamenti disciplinari), ove venga provata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, con onere probatorio a capo del lavoratore (ed in alcuni casi potrebbe trattarsi di probatio diabolica). In tal caso il licenziamento è illegittimo ed è prevista la reintegrazione con indennità risarcitoria (comunque non superiore a 12 mensilità), commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegra, dedotto l'aliunde perceptum nelle more conseguito nonché l'"aliunde percipiendum" ovvero ciò che avrebbe potuto guadagnare accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett c) del dlgs. 21 aprile 2000 n. 181 ("c) perdita dello stato di disoccupazione in caso di rifiuto senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro a tempo pieno ed indeterminato o determinato o di lavoro temporaneo ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196, nell'ambito dei bacini, distanza dal domicilio e tempi di trasporto con mezzi pubblici, stabiliti dalle Regioni"). L'onere processuale a carico del datore concernerà la sussistenza della legittimità del licenziamento derivante da un determinato accadimento materiale, mentre il comportamento del lavoratore va sempre "pesato" in relazione alla oggettività del fatto.  Il datore di lavoro è obbligato al versamento dei contributi previdenziali dalla data del licenziamento all'effettiva reintegra, con una piccola novità (ma, forse, si tratta di una mera dimenticanza): nell'art. 3, comma 2, si parla di pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali "tout court", mentre per i "veterani" reintegrati (legge Fornero), l'art. 18, comma 4, stabilisce il pagamento degli stessi accompagnato dalla maggiorazione degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione (fatta salva la eventuale defalcazione, se il lavoratore, nel frattempo, ha prestato, altrove, la propria attività). In alternativa alla reintegra, l'art. 3, comma 2, prevede in capo al lavoratore il c.d. "opting out", ovvero la possibilità di avere quanto previsto dall'art. 2 comma 3, per i licenziamenti discriminatori: a) un'indennità sostitutiva pari a 15 mensilità; b) un risarcimento del danno non inferiore a 5 mensilità e pari alle mensilità parametrate sull'ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra, dedotto l'aliunde perceptum per attività di lavoro (in tal caso devono essere state effettivamente svolte e non ci sono le peculiarità di determinazione dell'aliunde perceptum previste nell'art. 3, comma 2), senza versamento di contributi previdenziali. La richiesta va avanzata, come nell'ipotesi del licenziamento nullo od inefficace, entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o, se antecedente, dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio.

 

Tutto quanto finora detto circa la reintegra secondo la previsione dell'art. 3, comma 2, non si applica alle piccole imprese (art. 9 del decreto).

 

In ordine al fatto materiale, la previsione dell'art. 3, comma 2, è in linea con quanto già affermato dalla Suprema corte con sentenza del 6.11.2014 n. 23669, intervenendo su un ricorso relativo ad un licenziamento adottato da un istituto bancario nei confronti di un suo direttore, principi interpretativi relativi alla nuova dizione dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 92 del 2012, che si riferisce alle ipotesi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.  Quest'ultima disposizione, correlata al licenziamento disciplinare, prevede in caso di insussistenza del fatto contestato o, qualora lo stesso sia punito, contrattualmente, con una sanzione conservativa, la c.d. "reintegra ridotta", con la ricostituzione del rapporto di lavoro, accompagnata da una indennità di natura risarcitoria compresa tra 5 e 12 mensilità, detratto, l'eventuale "perceptum" e "l'aliunde percipiendum", oltre al pagamento della contribuzione per L l'intero periodo maggiorata degli interessi ma senza sanzioni.  In ordine all'insussistenza del fatto, la Suprema Corte afferma che lo stesso va inteso nella sua componente materiale con esclusione di ogni dimensione soggettiva come, invece, aveva interpretato la giurisprudenza di merito in alcune decisioni ove l'insussistenza del fatto era stata intesa globalmente in un unicum tra le due componenti. Da ciò ne discende che la reintegra avviene, in caso di insussistenza del fatto, soltanto in presenza di un fatto posto alla base del licenziamento rilevatosi inesistente, senza alcun riferimento alla proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento.

 

Una breve riflessione si rende necessaria. L'aver tolto la stretta correlazione, ai fini del recesso, tra mancanza contestata e gravità (facendo venir meno, nella sostanza, le determinazioni disciplinari contenute nei contratti collettivi), se da un lato avvicina il trattamento di risoluzione del rapporto a quello già previsto per le piccole imprese dalla legge n. 108/1990 ­ qualunque licenziamento illegittimo, a meno che non sia nullo o inefficace, viene "ristorato" con una indennità economica di natura risarcitoria -, dall'altro, soprattutto, in certe realtà di alcuni settori e di alcune realtà del nostro Paese, potrebbe portare il lavoratore "a subire" pressioni da parte del proprio datore circa questioni che afferiscono alla gestione del rapporto (mansioni, straordinari, ritardi nella erogazione della retribuzione, ecc.). Sotto questo aspetto le tutele, sembrerebbero, a prima vista, tutt'altro che crescenti, pur tenendo conto del particolare momento storico che stiamo vivendo (dal punto di vista socio-economico).

 

 9. ­ Disposizioni processuali.

 

Da ultimo, l'art. 3 afferma che ai lavoratori nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti non trova applicazione l'art. 7 della legge n. 604/1966: ciò significa, ad esempio, che il tentativo obbligatorio di conciliazione avanti alla commissione provinciale istituita presso le Direzioni del Lavoro riferito al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non c'è più come, d'altra parte, è venuto meno tutto l'iter procedimentale specifico, caratterizzato da termini perentori e certi e che prevede l'apertura della procedura  8 per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con una comunicazione di "intenzione". Tuttavia, tale normativa rimarrà però in vigore per tutti i vecchi assunti. Ciò significa che, dal punto di vista pratico, finché ci sarà connivenza delle due discipline occorrerà sempre far riferimento alla data di assunzione prima di decidere quale procedura debba essere applicata.

 

10. ­ Revoca del licenziamento.

L’art. 5 disciplina l’ipotesi di revoca del licenziamento, la quale, se effettuata entro 15 gg dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione, darà luogo al ripristino del rapporto di lavoro, senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore, alle retribuzione nel frattempo maturate. La previsione conveniente per la diffusione dell’istituto in parola è la mancata applicazione delle sanzioni previste dal decreto in esame.

 

11. Contratto a tutele crescenti e pubblico impiego.

Mentre il rito Fornero ha previsto espressamente l'esclusione dallo stesso del pubblico impiego, il decreto in esame nulla dice, ma diversi sono gli argomenti che fanno propendere per la non applicabilità del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti al pubblico impiego:  a)Il T.U. del P.I. (n. 165 del 2001) prevede ipotesi tipiche di licenziamento  disciplinare, con impossibilità di estendere la previsione normativa ad ipotesi atipiche;  b)Il d.lgs. n. 23 del 2015 all'art. 1 fa espresso riferimento, quanto alla sua  applicazione, ad operai, quadri ed impiegati ed esclude i dirigenti, che nel pubblico  impiego sono invece soggetti all'art. 18 st lav.  D'altronde, la tutela reale per i dirigenti pubblici troverebbe il suo scopo nella garanzia della separazione tra poteri di gestione e poteri di direzione politica. La Cassazione ha più volte affermato che il rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici è assimilato a quello della categoria impiegatizia con funzioni dirigenziali. Dunque, l'illegittimità del recesso comporta anche per i dirigenti pubblici gli effetti reintegratori stabiliti dall'art. 18 St. lav. (cfr. Cass. sent. n. 8077/14 del 7.04.2014).  Inoltre, i dipendenti pubblici godono già di un'ampia tutela giurisdizionale di carattere reale. Infatti, l'art. 63, comma 2, d. lgs. n. 165 del 2001 prevede espressamente che il giudice adotti, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati, e pertanto il giudice del lavoro ha il potere di adottare qualsiasi tipo di sentenza, ivi compresa la sentenza di condanna. Tale norma, quindi, si presterebbe ad essere utilizzata anche nel caso di licenziamento illegittimo, qualunque sia la causa.


(Daniela Carbone)

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LaPrevidenza.it, 10/03/2015

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