lunedì, 11 dicembre 2023

Poste: illegittimo il licenziamento per aver rifiutato di svolgere la mansione in prestazione aggiuntiva

Cassazione civile sez. lavoro, sentenza 18.12.2014 n. 26741

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. STILE Paolo - Presidente - Dott. DE RENZIS Alessandro - Consigliere - Dott. BANDINI Gianfranco - rel. Consigliere - Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere - Dott. MAISANO Giulio - Consigliere - ha pronunciato la seguente:  sentenza sul ricorso 7984-2012 proposto da: POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell'avvocato TRIFIRO' SALVATORE, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;  - ricorrente -  contro  R.L. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE CLODIO 56, presso lo studio dell'avvocato CASELLA FABRIZIO, rappresentato e difeso dagli avvocati PAGLIARELLO ANGELO GIOACCHINO MARIA, MANUEL GALDO, giusta delega in atti;  - controricorrente - avverso la sentenza n. 816/2011 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 20/09/2011 R.G.N. 804/2009; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/11/2014 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI; udito l'Avvocato GIUA LORENZO per delega TRIFIRO' SALVATORE; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

La Corte d'Appello di Milano, con sentenza del 7.7-20.9.2011, confermò la pronuncia di prime cure che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento irrogato dalla Poste Italiane spa a R.L., per essersi quest'ultimo rifiutato di eseguire la prestazione cosiddetta aggiuntiva.

A sostegno del decisum la Corte territoriale, per ciò che ancora qui rileva, ritenne quanto segue:

- la Società aveva ragione di pretendere l'adempimento degli obblighi assunti con l'accordo del 2004 e di lamentare, a causa del comportamento del lavoratore, quantomeno un pregiudizio alla regolarità del servizio, ma non aveva indicato i gravi danni subiti, come prevede la norma contrattuale per irrogare la sanzione espulsiva;

- andava considerato, al fine di valutare la proporzionalità della sanzione, che il lavoratore aveva esposto sufficienti giustificazioni del suo rifiuto, a fronte di una richiesta intempestiva;

- il lavoratore altre volte era stato sanzionato per analoghe mancanze, ma almeno due sanzioni, su quattro richiamate nella lettera di licenziamento, erano state annullate per vizio formale, il che aveva impedito al giudice di entrare nel merito; in particolare, erano state annullate le sanzioni più gravi della sospensione per 10 giorni, mentre l'ultima del 3.1.2008 era ancora sub iudice;

- al licenziamento può ricorrersi solo come ultima ratio, quando sia prevedibile che altre sanzioni non sortirebbero l'effetto di ricostituire il rapporto di fiducia tra le parti; nella specie, si poteva invece ragionevolmente ritenere che il rapporto potesse ancora continuare nel reciproco interesse, con l'adozione di una sanzione conservativa;

il rifiuto della prestazione aggiuntiva non era avvenuto, infatti, ad iniziativa del lavoratore, ma era stato deciso in sede sindacale, con ovvie ripercussioni sui rapporti dei singoli non iscritti alle associazioni aderenti all'accordo.

Avverso l'anzidetta sentenza della Corte territoriale, la Poste Italiane spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi e illustrato con memoria.

L'intimato R.L. ha resistito con controricorso.

Diritto

1. Con il primo motivo, denunciando violazione di plurime norme di legge e di CCNL, la ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia tenuto conto che al lavoratore erano state in precedenza inflitte quattro sanzioni disciplinari conservative per fatti analoghi e che quelle annullate lo erano state per vizi formali; la recidiva richiamata nella nota di contestazione rendeva quindi legittimo il licenziamento.

Con il secondo motivo, denunciando violazione di plurime norme di legge e di CCNL, nonchè vizio di motivazione, la ricorrente deduce che la Corte territoriale avrebbe dovuto, in considerazione del comportamento complessivo tenuto dal lavoratore, ritenere la legittimità del licenziamento, posto che detto comportamento appariva intenzionale, negligente e produttivo di disturbo e disagio nel regolare svolgimento dell'attività lavorativa, essendo per contro irrilevante, oltre che non vero, che il fatto fosse stato deciso in sede sindacale.

I due motivi, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

2. L'art. 56 CCNL, richiamato dalla ricorrente, prevede l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso per la "recidiva plurima, nell'anno, nelle mancanze previste nel precedente gruppo".

Osserva la Corte che i fatti precedentemente sanzionati disciplinarmente non possono costituire recidiva laddove i relativi provvedimenti sanzionatori siano stati annullati; nè rileva che l'annullamento sia avvenuto per vizi formali, poichè anche tale tipologia di vizi impedisce di ritenere che il potere disciplinare sia stato ritualmente esercitato, sì da far ricomprendere la sanzione irrogata nell'ambito della recidiva.

Nel caso di specie erano stati contestati quattro precedenti disciplinari; ma uno non era infraannuale, mentre due delle sanzioni più gravi erano state annullate e soltanto l'ultima, quella del 31.1.2008, era ancora sub iudice; dal che discende il difetto della richiesta "recidiva plurima, nell'anno".

Peraltro, anche a prescindere dalle pur assorbenti considerazioni che precedono, va considerato che la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di osservare che la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in successive mancanze disciplinari, come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento, non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorchè connotati dalla recidiva, ai fini dell'accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva, quale naturale conseguenza delle norme di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 2119 c.c., in base ai quali è sancito il principio che la sanzione irrogata deve essere sempre proporzionata al comportamento posto in essere; con la conseguenza che la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva, in relazione a precedenti mancanze, come ipotesi di licenziamento, non esclude il potere-dovere del giudice di valutare la gravità dell'addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 8098/1992;

14041/2002; 24132/2007). Ciò che la Corte territoriale ha puntualmente fatto, evidenziando, in particolare, che:

- la parte datoriale non aveva indicato i gravi danni subiti, come richiesto dal già ricordato art. 56 CCNL ("c) per irregolarità, trascuratezza o negligenza, ovvero per inosservanza di leggi o di regolamenti o degli obblighi di servizio dalle quali sia derivato pregiudizio alla sicurezza ed alla regolarità del servizio con gravi danni alla Società o a terzi, o anche con gravi danni alle persone") ai fini dell'irrogazione della sanzione espulsiva; tale accertamento deve ritenersi ormai irretrattabile, siccome non oggetto di specifica doglianza;

- il lavoratore aveva esposto sufficienti giustificazioni del suo rifiuto, a fronte di una richiesta intempestiva; e anche tale accertamento fattuale non è stato specificamente impugnato;

- il rifiuto della prestazione aggiuntiva era stato deciso in sede sindacale; tale circostanza, apoditticamente negata dalla ricorrente, di per sè non ha evidentemente efficacia scriminante, ma costituisce un elemento di giudizio che deve essere considerato nell'ambito di una valutazione complessiva della proporzionalità della sanzione inflitta.

Ne discende che la Corte territoriale ha fatto corretto uso del proprio potere-dovere di valutare la proporzionalità della sanzione, escludendola in base ad un coerente e lineare iter argomentativo, condivisibile e non scalfito dalle censure svolte.

I motivi all'esame vanno pertanto disattesi.

3. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 4.100,00 (quattromilacento), di cui Euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2014
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LaPrevidenza.it, 08/01/2015

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