martedì, 22 aprile 2025

Colpa grave per il chirurgo plastico che non si attiene al protocollo e, sbagliando l'intervento provoca sofferenza alla paziente

Cassazione, sez. IV penale, sentenza 20.1.2014 n. 2347

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE  
SEZIONE QUARTA PENALE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ZECCA Gaetanino - Presidente - Dott. FOTI Giacomo - Consigliere - Dott. MASSAFRA Umberto - rel. Consigliere - Dott. ESPOSITO Lucia - Consigliere - Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere - ha pronunciato la seguente:  sentenza sul ricorso proposto da:  Q.G. N. IL (OMISSIS); avverso la sentenza n. 44/2010 CORTE APPELLO di L'AQUILA, del 09/11/2012; visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/11/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO MASSAFRA; Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. D'AMBROSIO Vito che ha concluso per il rigetto del ricorso, in subordine, per l'annullamento con rinvio; udito, per Q.G., l'avv. Bastardo Carlo, del Foro di Lecce, in sost. degli avv.ti Milo e Vinci, che chiede l'accoglimento del ricorso; udito, per la parte civile, l'avv. Di Domenico Mario, in sost. dell'avv. Cassiere, che deposita conclusioni, nota spese e chiede l'inammissibilità del ricorso.

 Fatto

1. Ricorrono per cassazione i difensori di fiducia di Q. G. avverso la sentenza emessa in data 9.11.2012 dalla Corte di Appello di L'Aquila che confermava quella in data 27.6.2009 del Tribunale di Avezzano con cui il predetto Q., era stato condannato, con attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, alla pena di Euro 600,00 di multa, essendo stato riconosciuto colpevole, nella qualità di chirurgo responsabile degli interventi (2) di mastoplastica additiva effettuati sulla persona di M.G., del delitto di lesioni colpose gravi (art. 590, comma 2 in relazione all'art. 583 c.p., comma 1, n. 1) in danno della detta paziente alla quale, per imperizia dovuta a carente tecnica chirurgica e alle inadeguate protesi prescelte, cagionava una malattia nel corpo di durata superiore a 40 giorni (tra cui dolenzia con impossibilità di dormire prona e movimenti limitati per scongiurare il dolore).

2. Articolano i motivi di seguito sinteticamente riportati:

2.1. la violazione di legge con riferimento agli artt. 40, 41 e 43 c.p. contestando la sussistenza del nesso causale tra la condotta del Q. e l'evento, richiamando le pregresse osservazioni, rimaste senza risposta da parte del giudice di appello, circa l'eccezionalità ed imprevedibilità della situazione della paziente laddove si era sostenuto che se si fosse intervenuto in modo diverso, potevano esservi diverse e più gravi conseguenze per la stessa e contestando che la Corte territoriale avesse rispettato, al riguardo, i dettami della nota sentenza "Franzese" (Sez. Un. 10.7.2002);

2.2. la violazione di legge ed il vizio motivazionale avendo la Corte territoriale, al pari del Giudice di primo grado, deciso in assenza di una perizia d'ufficio, fondandosi solo sulle risultanze della consulenza tecnica del P.M. e sulle deposizioni dei consulenti di parte (della parte civile e dell'imputato), salvo poi a non tenere in alcuna considerazione le prove "a discarico";

2.3. il vizio motivazionale circa la sussistenza della prova del fatto con particolare riguardo ai criteri adottati dal giudice nella valutazione delle dichiarazioni della parte civile; la violazione di legge con riferimento all'art. 192 c.p.p., comma 1 e 2; la mancanza e manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione con riferimento alle risultanze istruttorie, avendo la Corte argomentato "per relationem" ignorando, nella valutazione dei testimoni (ed in particolare della parte civile, portatrice di un interesse diretto all'interno del processo), gli specifici rilievi difensivi al riguardo;

2.4. il vizio motivazionale in relazione alla causa giustificatrice rappresentata dal consenso informato che la paziente aveva firmato;

2.5. il vizio motivazionale in ordine al diniego del criterio di comparazione di prevalenza delle concesse attenuanti generiche e, quanto alle statuizioni civili, al nesso di causalità tra la condotta dell'imputato e le lesioni.

3. E' stata depositata una memoria difensiva nell'interesse del ricorrente, con la quale s'invoca l'applicazione della L. n. 189 del 2012, art. 3, assumendo la riconducibilità della condotta del ricorrente all'ipotesi della colpa lieve, come tale penalmente irrilevante.

Diritto 

4. Il ricorso è infondato e va respinto.

5. Le censure mosse si pongono, sostanzialmente, al limite dell'aspecificità, avendo riproposto in questa sede le medesime doglianze rappresentate dinanzi alla Corte territoriale e da quel giudice disattese con congrua e corretta motivazione.

Infatti, la condivisione delle argomentazioni della sentenza di primo grado deve ritenersi del tutto giustificata in quanto questa Suprema Corte ha affermato che in tema di motivazione della sentenza di appello, si deve ritenere consentita quella "per relationem" con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate contro quest'ultima non contengano (come nella specie) elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi (cfr. Cass. pen., Sez. 4, 17.9.2008, n. 38824; Sez. 5, 22.4. 1999, n. 7572).

La prova della colpevolezza è stata correttamente ed esaurientemente tratta dalla deposizione del teste P., medico chirurgo che sottopose la paziente al successivo e terzo intervento e che constatò de visu gli effetti dei primi due interventi eseguiti dal ricorrente, riferendo, perciò, circostanze obiettive (il danno estetico, il danno funzionale, una diffusa dolenzia ed ipoestesia nonchè lo scorretto distacco del muscolo mammario destro con conseguente suo arricciamento durante i movimenti mentre il lato sinistro presentava il muscolo completamente staccato e rotolato verso l'alto), verificate di persona, alle quali, assieme a quanto rilevato dal consulente del Pubblico ministero che parimenti verificò lo stato obiettivo della M., nulla ha potuto controdedurre il consulente della difesa.

6. Tanto meno sono ravvisabili discostamenti dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità in ordine al nesso causale, attesa la certa attribuzione delle gravi lesioni (con la sola eccezione dell'asimmetria mammaria, anomalia preesistente all'intervento del Q.) alla condotta imperita dell'imputato (con conseguente assorbimento della censura inerente al risarcimento dei danni).

Per il resto, vale e va ribadito il principio secondo il quale (Cass. pen. Sez. 4, 24 ottobre 2005, n. 1149, Rv. 233187) "nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata e ravvisare, quindi, la superfluità delle deduzioni suddette".

7. In tale peculiare e netta situazione, non poteva che risultare superflua e non certo assolutamente necessaria o indispensabile ai fini del decidere l'invocata perizia ufficiosa.

Invero, la rinnovazione, ancorchè parziale, del dibattimento ha carattere eccezionale e può essere disposta solo qualora il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Ne deriva che mentre la rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, nel caso, viceversa, di rigetto, la relativa motivazione può essere anche implicita - come nel caso di specie - nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Cass. pen. Sez. 5, n. 15320 del 10.12.2009, Rv. 246859).

8. Quanto alla censura inerente il consenso informato, è incontestabile che l'attività medico-chirurgica, per essere legittima, presuppone il "consenso" del paziente, che non si identifica con quello di cui all'art. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento: infatti, il medico, di regola ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorchè il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p.), non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il "consenso", per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere "informato", cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell'intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l'indicazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'art. 32 Cost. (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico- malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario (Cass. pen. Sez. 4, n. 37077 del 24.6.2008, rv. 240977).

Di certo, la mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determina l'arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo, ma la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta (vuoi omissiva, vuoi commissiva) dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l'attività sia stata prestata con o in assenza di consenso. Cosicchè il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente. Con la precisazione che non è di regola possibile fondare la colpa sulla mancanza di consenso, perchè l'obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza, essendo l'acquisizione del consenso preordinata a evitare non già fatti dannosi prevedibili (ed evitabili), bensì a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possano derivare dalla scelta terapeutica in attuazione del richiamato art. 32 Cost., comma 2.

Quindi, il consenso informato non integra una scriminante dell'attività medica poichè, espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, rappresenta solo un vero e proprio presupposto di liceità dell'attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell'ammalato (Cass. pen. Sez. 4, n. 11335 del 16.1.2008, Rv.

238968). E ciò vale a fortiori nell'ambito della chirurgia estetica, per sua natura non connotata dall'urgenza ma finalizzata a migliorare l'aspetto fisico del paziente in funzione della sua vita di relazione.

9. Congrua e corretta è la motivazione addotta per negare il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull'aggravante con il richiamo alla gravità dei precedenti penali riportati dall'imputato: invero, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Corte non solo ammette la cd. motivazione implicita (Cass. pen. Sez. 6, 22.9.2003 n. 36382 n. 227142) o con formule sintetiche (tipo "si ritiene congrua" vedi Cass. pen. Sez. 6, 4.8.1998 n, 9120 rv. 211583), afferma che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Cass. pen. sez. 3, 16.6.2004 n. 26908 rv. 229298): evenienza questa da escludere in radice nel caso in esame.

10. La nuova normativa di cui alla L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, la cui applicazione è stata invocata con la memoria da ultimo presentata, prevede che l'esercente una professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida ed a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve: il terapeuta, dunque, potrà invocare il nuovo, favorevole parametro di valutazione della sua condotta professionale solo se si sia attenuto a direttive solidamente fondate e come tali riconosciute.

Sono emerse, dunque, da un canto, la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, per la prima volta normativamente introdotta nell'ambito della disciplina penale dell'imputazione soggettiva e, dall'altro, la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche, purchè corroborate dal sapere scientifico.

Ma non vi sono elementi (e tanto meno se ne è mai trattato) per ricondurre la condotta del ricorrente alla fattispecie de qua, sia perchè non è stato dimostrato che tale condotta abbia osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, per giunta accreditate dalla comunità scientifica, nè tali linee guida sono state compiutamente delineate, che anzi la preesistenza dell'asimmetria mammaria, come rilevato dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto indurre l'imputato ad effettuare scelte più opportune con riferimento al tipo di protesi da impiantare e alla loro dimensione sia perchè la cospicua entità delle lesioni cagionate con la dipendente malattia (consistente in qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorchè localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali e qui individuate nel rilevante danno estetico, nelle gravissime sofferenze fisiche e psicologiche, nel rischio derivante dalle cicatrici, residuate dall'erronea incisione, di non avere certezze nella prevenzione del cancro alla mammella), non può ragionevolmente rapportarsi ad un grado di colpa talmente contenuto quale è quello contemplato dalla norma in questione. Infatti il giudice di primo grado (la cui sentenza si fonde in un unicum inscindibile con quella confermativa di appello) ha rimarcato, traendola dalle risultanze probatorie, la "piena sussistenza di un notevole grado di imperizia dell'imputato nei due interventi chirurgici cui ha sottoposto la M.".

E', pertanto, già palese come nel caso di specie l'imputato sia incorso in quella colpa grave tutt'ora rilevante nell'ambito della professione medica e rinvenibile "nell'errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell'uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell'atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria" (Cass. pen. Sez. 4, n. 16237 del 29.1.2013, Rv. 255105).

11. Consegue, pertanto, il rigetto del ricorso e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese sostenute in questo giudizio di cassazione dalla parte civile, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo giudizio di cassazione, spese che si liquidano in Euro 2.500,00 oltre accessorie come per legge.

Così deciso in Roma, il 27 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2014
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LaPrevidenza.it, 17/02/2014

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