Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MACIOCE Luigi - Presidente - Dott. D'ANTONIO Enrica - Consigliere - Dott. BLASUTTO Daniela - Consigliere - Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere - Dott. AMENDOLA Fabrizio - rel. Consigliere -
sul ricorso 23702-2011 proposto da: B.S. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato QUATTROMINI GIULIANA, QUATTROMINI PAOLA, giusta delega in atti; - ricorrente -
contro S.E.P.S.A. S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell'avvocato PARISI SARA, rappresentata e difesa dall'avvocato SEVERINO NAPPI, giusta delega in atti; - controricorrente - avverso la sentenza n. 4374/2011 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 05/08/2011 r.g.n 1570/2008; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/01/2016 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
1.- Con sentenza del 5 agosto 2011 la Corte di Appello di Napoli ha respinto l'appello proposto da B.S. nei confronti della SEPSA Spa avverso la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda del lavoratore avente ad oggetto una richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali, consistenti nell'usura psicofisica e/o da stress lavorativo, per la mancata fruizione di soste durante la conduzione di automezzi adibiti al trasporto pubblico di persone su tratte urbane ed extraurbane.
In sintesi e per quanto qui rileva, la Corte territoriale - al cospetto dell'appello del lavoratore che, censurando il primo giudice per avere "ritenuto non allegato il danno biologico o esistenziale derivato dal mancato rispetto dell'obbligo datoriale di concedere soste di 15 minuti o più tra una corsa e l'altra nell'ambito del turno di lavoro", affermava che il danno non patrimoniale sarebbe desumibile da massime di comune esperienza o da presunzioni semplici - ha replicato sottolineando la distinzione tra inadempimento datoriale dell'obbligazione relativa alle pause lavorative ed il consequenziale danno risarcibile ed ha poi confermato l'insufficienza delle allegazioni attoree sul punto.
Ha rilevato infatti che il "ricorrente ha genericamente parlato di un ritenuto danno esistenziale, mentre con riguardo al cd. danno biologico ha genericamente riferito di uno stress lavorativo, con non meglio chiarite ricadute sull'integrità psicofisica", senza "indicare con chiarezza la natura e gli elementi specifici del pregiudizio subito"; ha richiamato quindi principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità ribadendo che ogni qualvolta si chieda il risarcimento del danno non patrimoniale esso deve essere allegato compiutamente e dedotto nei suoi termini fattuali, non potendo il giudice supplire a carenze della parte in tal senso, tanto meno attraverso l'esercizio di poteri officiosi.
2.- Per la cassazione di tale sentenza il soccombente ha proposto ricorso affidato ad otto motivi. Ha resistito con controricorso la società.
Diritto
3.- I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:
violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e dell'art. 115 c.p.c. per avere la sentenza impugnata applicato una legge, la L. n. 62 del 1974, espressamente abrogata dal D.Lgs. n. 285 del 1992, senza altresì tenere conto che la domanda era fondata anche sull'art. 7 del regolamento CEE n. 3820 del 1985 (primo motivo);
in subordine violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101 e 112 c.p.c. in quanto alcuna delle parti aveva fatto questione di applicabilità della citata L. n. 62 del 1974, per cui la sentenza impugnata aveva violato il principio del contraddittorio, pronunciando altresì ultrapetita (secondo motivo) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043 e 2059 c.c. nonchè dell'art. 414 c.p.c. sostenendo essere erroneo l'assunto della Corte di Appello secondo cui sarebbe stata carente anche l'allegazione del danno non patrimoniale patito dall'attore (terzo motivo);
violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 c.c. sull'assunto che la sentenza impugnata avrebbe confuso tra onere probatorio della violazione del diritto alle pause ed onere probatorio conseguente a tale violazione, non tenendo conto che incombeva sulla società l'onere di provare l'adempimento contrattuale (quarto motivo);
omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo al rigetto nel merito, anzichè in rito, del ricorso di primo grado per carenti allegazioni, in relazione all'art. 112 c.p.c., a mente dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (quinto motivo);
violazione e/o falsa applicazione dell'art. 414 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, per la stessa ragione di cui innanzi, prospettata però ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (sesto motivo);
violazione e/o falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. e art. 111 Cost. per la mancata ammissione di mezzi istruttori tempestivamente richiesti in ricorso dall'attore e da lui coltivati come specifico motivo di appello, anche con riguardo all'esibizione di documenti, in particolare cronotachigrafi, risultanze del sistema satellitare GPS installato sugli automezzi, fogli di marcia, attestanti i tempi di percorrenza dei veicoli e le relative eventuali soste (settimo motivo);
lo stesso vizio viene fatto valere come omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consistente nel dedotto mancato godimento delle soste fra una corsa e la successiva alla guida degli automezzi SEPSA (ottavo motivo).
4.- Il ricorso non è meritevole di accoglimento per le ragioni in parte già espresse da questa Corte in giudizio analogo al presente (Cass. n. 2886 del 2014).
Preliminarmente occorre evidenziare che la sentenza impugnata risulta ancorata ad una essenziale ratio decidendi, autonoma e da sola sufficiente a sorreggerne il dictum, rappresentata dalla confermata insufficienza, già dichiarata dal primo giudice, di allegazioni attoree idonee a sostenere la sussistenza del richiesto risarcimento di un danno non patrimoniale.
Sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l'uno dall'altro, e ciascuno, di per sè solo, idoneo a supportare il relativo decisum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossi con l'impugnazione comporta che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato, privando in tal modo l'impugnazione dell'idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001;
Cass. n. 24540 del 2009); può altresì ritenersi nel caso di specie che se l'indicata fondamentale ragione della decisione "resiste" all'impugnazione proposta dal ricorrente è del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perchè l'eventuale accoglimento di essa non condurrebbe mai alla cassazione della sentenza gravata.
4.1.- Occorre dunque pregiudizialmente esaminare il terzo motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043 e 2059 c.c. nonchè dell'art. 414 c.p.c., rilevando di aver chiesto il danno da usura psicofisica o stress lavorativo e che il danno non patrimoniale può liquidarsi sulla base della pura e semplice allegazione ogni qual volta la sua concreta esistenza sia agevolmente desumibile da massime di comune esperienza o da presunzioni semplici, senza necessità che il danneggiato indichi analiticamente in quale forma particolare di sofferenza si sia concretato il pregiudizio o adduca specifici riferimenti alla sua situazione personale per le ricadute del danno su aspetti extralavorativi e della vita di relazione.
Il motivò è infondato.
Pacificamente deve distinguersi il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo peraltro quest'ultimo eventuale: la violazione di un dovere non equivale a danno e questo non discende automaticamente dalla violazione del dovere. Secondo i principi generali (artt. 2697 e 1223 c.c.), infatti, occorre l'individuazione di un effetto della violazione su di un determinato bene perchè possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso.
In tema, la Corte Costituzionale ha chiarito (sentenza n. 372 del 1994) che anche il danno biologico non è presunto, perchè, se la prova della lesione costituisce anche prova dell'esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell'esistenza dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato.
Nel medesimo senso questa Corte (tra le tante, Cass. n. 691 del 2012) ha affermato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo. Ad esempio, con riferimento al servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale, Cass. n. 14288 del 2011 e Cass. n. 11727 del 2013 hanno precisato che la mancata concessione del diritto ad un giorno di riposo compensativo (non riconducibile, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all'art. 36 Cost.) è idonea ad integrare un'ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psicofisica) da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, e che esso è risarcibile solo in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava l'onere della specifica deduzione e della prova.
Tali principi non possono che trovare conferma con riferimento al c.d. danno da stress (o usura psicofisica) derivante dal mancato riconoscimento delle soste obbligatorie nella guida. Anche tale danno, infatti, si iscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto patito dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava, pertanto, l'onere della relativa specifica deduzione (e successivamente prova, anche attraverso presunzioni semplici): il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può dunque prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo (Cass. n. 4479 del 2012).
In altri termini, il carattere non patrimoniale del danno postula una specificazione degli elementi necessari per la sua configurazione, sia con riferimento al tipo di danno configurabile (danno biologico, morale, esistenziale), sia con riferimento ai diversi presupposti rilevanti per ciascuna tipologia di pregiudizio, restando invece esclusa la configurabilità di un danno in re ipsa.
Sulla base di tali considerazioni è stato affermato il seguente principio di diritto, dal quale il Collegio non ravvisa ragione per discostarsi: "nel caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da stress lavorativo, subito in ragione del mancato riconoscimento delle soste retribuite - previste dal regolamento n. 3820/85/CEE, nonchè dall'art. 14 del regolamento OIL n. 67 del 1939, e dalla L. n. 138 del 1958, art. 6, comma 1, lett. A), - per una durata di almeno 15 minuti tra una corsa e quella successiva e, complessivamente per turno giornaliero, di almeno un'ora, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare il tipo di danno specificamente sofferto ed il nesso eziologico con l'inadempimento datoriale, non discendendo automaticamente tale danno dalla violazione del dovere datoriale e richiedendo il danno non patrimoniale una specificazione degli elementi necessari per la sua configurazione" (Cass. n. 2886 del 2014; conforme: Cass. n. 14710 del 2015).
4.2.- Una volta che la ragione della decisione fondata sulla mancanza di adeguate allegazioni che consentissero l'accoglimento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ha superato il vaglio di legittimità, per quanto detto in premessa risulta ultronea la verifica delle altre censure, sia di quelle contenute nel primo e nel secondo motivo di ricorso, peraltro riferentesi ad argomentazioni di contorno sviluppate dalla Corte territoriale, sia di quelle esposte al quarto, al settimo ed all'ottavo motivo, riguardanti la sussistenza in fatto del denunciato inadempimento datoriale.
4.3.- Residuano le questioni processuali sollevate dal quinto e dal sesto motivo e già affrontate da questa Corte sull'analogo ricorso già citato (Cass. n. 2886/2014).
Il primo di essi è inammissibile, per difetto di autosufficienza. Il ricorrente infatti, che lamenta l'omessa pronuncia del giudice di appello, si limita a riportare un passaggio non esauriente dell'atto di appello, non riportando in particolare cosa esattamente abbia richiesto alla Corte territoriale, ossia quale tipo di pronuncia abbia domandato in relazione a detto motivo e come la stessa fosse articolata avuto riguardo all'unica conclusione - riportata nella sentenza impugnata - secondo cui l'appellante avrebbe richiesto esclusivamente "l'accoglimento della domanda proposta". Infatti, come evidenziato da Cass. n. 14561 del 2012, nel caso della deduzione del vizio per omessa pronuncia su una o più domande avanzate in primo grado è necessaria, al fine dell'ammissibilità del ricorso per cassazione, la specifica indicazione dei motivi sottoposti al giudice del gravame sui quali egli non si sarebbe pronunciato, essendo in tal caso indispensabile la conoscenza puntuale dei motivi di appello. Nel medesimo senso, si è affermato (Cass. n. 317 del 2002 e Cass. n. 3547 del 2004) e ribadito con Cass. n. 2886/2014 cit. che la parte che impugna una sentenza con ricorso per cassazione per omessa pronuncia su di una domanda, ha l'onere, per il principio di autosufficienza del ricorso, a pena di inammissibilità per genericità del motivo, di specificare quale sia il "chiesto" al giudice del gravame sul quale questi non si sarebbe pronunciato, non potendosi limitare ad un mero rinvio all'atto di appello, atteso che la Corte di cassazione non è tenuta a ricercare al di fuori del contesto del ricorso le ragioni che dovrebbero sostenerlo, ma può accertarne il riscontro in atti processuali al di fuori del ricorso sempre che tali ragioni siano state specificamente formulate nello stesso.
Con il sesto motivo il ricorrente pone i medesimi fatti dedotti nel motivo (relativi al supposto dovere del giudice di dichiarare nullo, anzichè infondato, il ricorso ritenuto carente delle allegazioni minime essenziali per ottenere il risarcimento del danno) alla base di una censura di violazione e falsa applicazione dell'art. 414 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2. Il motivo, oltre a denunciare impropriamente come vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quello che eventualmente si configura come error in procedendo, è inammissibile non essendo stato riprodotto nel corpo del motivo l'atto introduttivo della lite alla cui asserita nullità il motivo fa riferimento e comunque non potendo la nullità essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, a mente dell'art. 157 c.p.c., u.c..
Del resto, la facoltà del giudice di legittimità di valutare direttamente gli atti del processo qualora col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento - facoltà riconosciuta dalle SS.UU. n. 8077 del 2012 - postula infatti pur sempre, come precisato nella stessa pronuncia, che la censura sia ammissibile ed in concreto sia proposta in conformità delle regole fissate dal codice di rito.
5.- Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono per legge la soccombenza liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 2.600,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 gennaio 2016.
Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2016