1.- Con ricorso depositato il 7.10.2013, B.M. convenne in giudizio lo Stato Italiano, ai sensi della legge 13 aprile 1988 n.117, dinanzi al Tribunale di Trento, deducendo che:
- egli faceva parte del consiglio di amministrazione della società "xxxx.", mentre il fratello, B. G.O., pur essendo titolare di una quota, era tenuto fuori dalla gestione della società, il cui capitale sociale era detenuto pro-quota, oltre ai due fratelli, dai due soci fondatori, B. G. e B.L. (rispettivamente zio e padre del ricorrente);
- fino al 30 giugno 2004 la società aveva avuto un collegio sindacale;
- all'inizio del 2004, il socio non amministratore, B.G. O., aveva denunciato al collegio sindacale non meglio precisati fatti di mala gestio asseritamente imputabili al consiglio di amministrazione;
- tra il 6 maggio e il 30 giugno 2004 si erano dunque tenute 3 assemblee: la prima, straordinaria, sollecitata dallo stesso collegio sindacale, per esaminare la denuncia del socio dissenziente (l'assemblea si era conclusa con l'approvazione dell'operato degli amministratori); la seconda, ordinaria, per l'approvazione del bilancio di esercizio per l'anno 2003 e per il rinnovo delle cariche sociali (l'assemblea si era conclusa con l'approvazione del bilancio, la conferma del consiglio di amministrazione e le dimissioni del collegio sindacale); la terza, straordinaria, sollecitata dal consiglio di amministrazione per deliberare la riduzione del capitale sociale, ritenuto esuberante in relazione al ridimensionamento dell'attività sociale (l'assemblea si era conclusa con la deliberazione di riduzione del capitale sociale, non ostante il voto contrario del socio dissenziente e la contraria opinione espressa dal - dimissionario - collegio sindacale);
- il 30 giugno 2004, i sindaci avevano adito il Tribunale di Treviso con ricorso ex art. 2409 c.c., fondato sugli episodi di mala gestio già denunciati dal socio dissenziente, che aveva spiegato intervento adesivo nel procedimento;
- con decreto del 28.09.2004, il Tribunale di Treviso - senza che fosse assicurata la rappresentanza in giudizio alla società, attraverso la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. - aveva ordinato l'ispezione dell'amministrazione della società medesima, ai sensi dell'art. 2409 c.c., comma 2;
- con successivo decreto dell'11.04.2005, avuto riguardo ai risultati dell'ispezione, lo stesso Tribunale aveva revocato gli amministratori e nominato l'amministratore giudiziario, ai sensi dell'art. 2409 c.c., comma 4, con il mandato di esperite l'azione di responsabilità verso gli amministratori ed elaborare un piano di ripianamento delle perdite da sottoporre all'assemblea al fine di (alternativamente) riavviare l'attività produttiva o procedere alla liquidazione;
- avverso il decreto dell'11.04.2005, gli amministratori revocati avevano proposto reclamo ex art. 739 c.p.c. alla Corte di Appello di Venezia e avverso il decreto di rigetto del reclamo da parte della Corte di Appello avevano proposto ricorso per cassazione, dichiarato inammissibile (con sentenza n. 13767 del 12 giugno 2007) sulla base della considerazione che i provvedimenti ex art. 2409 c.c. non sono impugnabili con ricorso straordinario ex art. 111 Cost., comma 7;
- a seguito della relazione del 25.05.2005 dell'amministratore giudiziario (che aveva evidenziato una rilevante situazione debitoria, sollecitando il tribunale a prendere gli opportuni provvedimenti anche ex art. 6 L. Fall., nel testo applicabile ratione temporis), il Tribunale di Treviso, nelle stesse persone che avevano emesso il decreto ex art. 2409 c.c., aveva officiosamente dichiarato il fallimento della "F.lli Barro Giovanni & Luigi s.r.l.", con sentenza del 5.7.2005;
- lo stesso tribunale, in diversa composizione, con sentenza del 2007, aveva rigettato l'opposizione alla dichiarazione di fallimento proposta dagli amministratori revocati, mentre non era intervenuta la società, cui non era stato nominato un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.; - con sentenza del 13.12.2010, la Corte di Appello di Venezia aveva rigettato l'appello proposto, da parte degli opponenti (sempre nell'assenza della società), avverso la sentenza reiettiva dell'opposizione;
- con sentenza n. 8946 del 4.06.2012, la Corte di Cassazione - senza rilevare la violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa della società, rimasta incolpevolmente contumace sia nelle fasi di merito che in quella di legittimità - aveva rigettato il suo ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia (erano nel frattempo deceduti B.G. e L.).
Sulla base di queste deduzioni - ed assumendo in diritto: a) che la disciplina di cui all'art. 2409 c.c., dettata esclusivamente per le società per azioni, era stata inammissibilmente applicata, con palese e grave violazione delle norme di ermeneutica legislativa, ad una società a responsabilità limitata; b) che tanto nel procedimento ex art. 2409 c.c. quanto nel giudizio di fallimento vi era stata una gravissima violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa della società "F.lli Barro Giovanni & Luigi s.r.l.", la quale avrebbe dovuto partecipare ai giudizi per il tramite di un curatore speciale appositamente nominato ex art. 78 c.p.c.; c) che tali gravi violazioni di legge (da cui era derivato un gravissimo pregiudizio in capo alla società e a lui stesso, in quanto l'inammissibile procedimento ex art. 2409 c.c. aveva dato la stura all'ispezione giudiziale, al conseguente blocco dell'attività produttiva, alla revoca degli amministratori e alla successiva declaratoria di fallimento) dovevano essere valutate facendo applicazione, non già della disciplina di diritto interno concernente i presupposti della responsabilità dello Stato per i danni derivanti da atti e comportamenti posti in essere dai magistrati nell'esercizio delle funzioni (L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 1 e 2), ma della ben più pregnante disciplina posta dal diritto dell'Unione Europea, quale risultante dalle sentenze 13 giugno 2006 (causa C-173/2003: Traghetti del Mediterraneo s.p.a.) e 24 novembre 2011 (causa C-379/2010: Commissione Europea), della Corte di Giustizia - B.M. domandò pertanto la condanna dello Stato al risarcimento, in suo favore, del danno predetto.
Si costituì in giudizio il convenuto, resistendo alla domanda.
Nel corso del giudizio spiegò intervento la "xxx Luigi s.r.l.", mediante il curatore speciale ex art. 78 c.p.c., appositamente nominato.
Con decreto del 31 ottobre 2014, il Tribunale di Trento dichiarò inammissibile la domanda ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 5, nel testo applicabile ratione temporis.
2.- Con decreto del 20 gennaio 2015, la Corte di Appello di Trento rigettò il reclamo proposto da B.M. e dichiarò inammissibile quello proposto dalla società "F xx." avverso il decreto del Tribunale, confermando la statuizione di inammissibilità della domanda risarcitoria verso lo Stato.
3.- Avverso il decreto B.M. propone ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.
Resiste con memoria/controricorso lo Stato Italiano-Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato di Trento.
Mediante il curatore speciale, propone controricorso anche la società dichiarata fallita, "F.lli Barro Giovanni & Luigi s.r.l.", la quale avanza altresì ricorso incidentale affidato a sei motivi, cinque dei quali sovrapponibili a quelli proposti dal ricorrente principale.
Avverso il ricorso incidentale, resiste con altra memoria/controricorso lo Stato Italiano-Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro- tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato di Trento.
Il ricorrente principale ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ..
Diritto
Preliminarmente, la Corte rileva la nullità delle memorie/controricorsi depositati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in quanto rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato di Trento e non dall'Avvocatura Generale dello Stato (cfr. Cass. 20 ottobre 2006, n. 22539).
Va peraltro dato atto che alla discussione tenuta alla pubblica udienza dell'8 luglio 2015 ha partecipato l'Avvocato Generale dello Stato.
1.- Pregiudiziale è l'esame della questione posta con la memoria del ricorrente principale, concernente la portata applicativa della norma sopravvenuta della L. 27 febbraio 2015, n. 18, art. 3, comma 2, che dispone che "la L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 5 è abrogato".
Ai sensi di questa norma, i giudizi di responsabilità promossi contro lo Stato dopo l'entrata in vigore della nuova legge per ottenere il risarcimento dei danni derivanti da comportamenti, atti o provvedimenti posti in essere da un magistrato dopo l'entrata in vigore della nuova legge non saranno preceduti dal c.d. filtro di ammissibilità, che è stato eliminato mediante l'abrogazione della L. n. 117 del 1988, art. 5.
Nella specie, è impugnato con ricorso per cassazione il decreto della Corte d'appello di Trento pronunciato e pubblicato il 20 gennaio 2015 di rigetto del reclamo proposto avverso il decreto del Tribunale che, pronunciandosi ai sensi del menzionato art. 5, aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto da B.M., in data 7 ottobre 2013, per ottenere il risarcimento dei danni per responsabilità civile dei magistrati.
La L. n. 18 del 2015 è entrata in vigore il 19 marzo 2015, quando già pendeva il presente giudizio di legittimità, essendo stato il ricorso principale notificato in data 19 febbraio 2015 e depositato in data 26 febbraio 2015.
Il ricorrente pone la questione dell'applicabilità dell'ius superveniens anche ai giudizi in corso al momento dell'entrata in vigore della nuova legge.
1.1.- Secondo la tesi sostenuta dalla difesa nella memoria ex art. 378 c.p.c., il giudizio di ammissibilità della domanda risarcitoria proposta da B.M. dovrebbe ritenersi travolto dalla abrogazione della norma che lo prevedeva, con conseguente legittimazione del ricorrente a chiedere ed ottenere direttamente la pronuncia sul merito: la Suprema Corte, dunque, dovrebbe cassare con rinvio ad altro giudice di pari grado per l'annullamento del decreto di inammissibilità e rimessione al primo giudice, competente per la fase di merito.
In favore della tesi dell'applicabilità della L. n. 18 del 2015, art. 3, comma 2, ai giudizi in corso deporrebbe, secondo il ricorrente, la natura processuale sia della norma abrogata (la L. n. 117 del 1988, art. 5) sia della norma abrogativa (la L. n. 18 del 2015, art. 3, comma 2). Il riconoscimento di tale natura imporrebbe di fare coerente applicazione del principio tempus regit actum, con conseguente immediata operatività della nuova disciplina che esclude la precondizione del giudizio di ammissibilità dell'azione risarcitoria, dal momento che la L. n. 18 del 2015 non contiene disposizioni di diritto transitorio. Inoltre, a detta del ricorrente, l'immediatezza dell'entrata in vigore della legge e la sua applicabilità anche ai giudizi in corso si evincerebbero dal testo dell'art. 1; si evincerebbero altresì dal fatto che, per il presente giudizio, è stata fissata l'udienza pubblica per la discussione del ricorso, mentre l'abrogato L. n. 117 del 1988, art. 5 prevedeva che il ricorso venisse deciso in camera di consiglio.
1.2.- La tesi del ricorrente non merita accoglimento, pur dovendosi riconoscere alla norma abrogata ed a quella abrogativa natura processuale, e non sostanziale.
Non è dato qui discutere, in generale, dei presupposti e dei limiti della responsabilità civile dello Stato per i danni derivanti dai comportamenti, atti e provvedimenti posti in essere nell'esercizio della funzione giurisdizionale, quanto piuttosto, specificamente, della previsione del c.d. filtro di ammissibilità.
La Corte Costituzionale, chiamata a decidere la questione di legittimità costituzionale della L. n. 117 del 1988, art. 19 (che, nello stabilire l'irretroattività della nuova disciplina, non prevedeva condizioni di proponibilità della domanda risarcitoria, analoghe all'autorizzazione ministeriale già contemplata dall'art. 56 c.p.c., abrogato, unitamente agli artt. 55 e 74 stesso codice, a seguito del referendum popolare del 1987), richiamate le sentenze n. 2 del 1968 e n. 26 del 1987, ne ha dichiarato l'illegitrimità costituzionale nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile dei magistrati, relativamente ai fatti anteriori al 16 aprile 1988, e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevedeva che il tribunale competente verificasse preliminarmente la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità. Ciò, sul presupposto che "la mancata previsione nel contesto della L. n. 117 del 1988, art. 19, di una norma a tutela dei valori di cui agli articoli da 101 a 113 della Carta Costituzionale determina vulnus - prima ancora che dei suddetti parametri - del principio di non irragionevolezza implicato dall'art. 3 Cost.", e che un preliminare controllo della non manifesta infondatezza della domanda ai fini dell'ammissibilità dell'azione risarcitoria fosse necessario "per un equo bilanciamento degli interessi giustapposti, della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale e della giustizia da rendersi al cittadino per danni derivantigli dall'esercito di quella funzione" (Corte Cost. 9-22 ottobre 1990, n.468).
In un precedente giudizio, chiamata a decidere la questione più generale di legittimità costituzionale dell'intera L. 13 aprile 1988, n. 117 per contrasto con gli artt. 101, 104 e 108 Cost. (nella parte in cui prevedeva e disciplinava la responsabilità civile dei giudici per colpa grave), alle censure del giudice remittente - secondo cui quella disciplina comprometteva l'imparzialità e l'indipendenza della magistratura, con l'attribuire alle parti uno strumento di pressione idoneo ad influenzarne le decisioni - la Corte Costituzionale aveva risposto, tra l'altro, che "la previsione del giudico di ammissibilità della domanda (art. 5 L. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione" (Corte Cost. 11-19 gennaio 1989, n.18).
La circostanza che il c.d. filtro di ammissibilità abbia la funzione di garantire i valori di indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale non è tuttavia sufficiente a far ritenere che la norma che lo prevede (va) non abbia carattere processuale, malgrado il suo riconosciuto fondamento costituzionale. Piuttosto, quella funzione viene assicurata mediante un meccanismo che opera su un piano esclusivamente processuale.
La natura processuale delle norme sulla competenza e sui termini (art. 4) e sull'ammissibilità della domanda (art. 5) si desume dal fatto, pure evidenziato dal ricorrente, che si tratta di disposizioni volte a definire i requisiti necessari ed inderogabili per la proposizione in giudizio della domanda di responsabilità, non anche per la sua definizione nel merito.
Pertanto - fermo il principio costituzionale che prevede che i funzionari e dipendenti dello Stato (tra i quali rientrano anche i magistrati) sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti e che la responsabilità civile si estende allo Stato (art. 28 Cost.) - il problema dell'individuazione dei limiti alla responsabilità civile del giudice, in funzione dell'equilibrato contemperamento di contrapposti interessi (l'interesse generico a che la titolarità di un pubblico potere non sia immune da profili di responsabilità con l'interesse specifico a che la previsione di forme di responsabilità per i titolari del potere giurisdizionale non si traduca in un condizionamento idoneo ad incidere negativamente sull'equilibrato esercizio dello stesso o, peggio ancora, non si presti ad essere utilizzata strumentalmente come arma di pressione volta ad incrinare l'imparzialità del magistrato), ben può risolversi sul doppio piano della tutela sostanziale e di quella processuale.
Allora, si può concludere osservando che la tutela dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura (art. 101 Cost., comma 2; art. 104 Cost., comma 1; art. 108 Cost., comma 2) e di terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111 Cost., comma 2) è assicurata sia con il riconoscimento al magistrato di guarentigie concernenti i detti limiti, che operano sostanzialmente nella definizione dei fatti costituenti illecito (guarentigie, che concorrono a costituirne lo status, pur se attribuite non in favore della sua persona, bensì al fine di salvaguardare i connotati costituzionali della funzione esercitata), sia con la previsione di norme processuali volte a regolare l'esercizio dell'azione di responsabilità civile, prevedendone regole speciali di competenza, termini e modalità. Tra queste si colloca(va) il giudizio per la delibazione preliminare di ammissibilità della domanda finalizzato ad escludere le azioni risarcitorie temerarie ed intimidatorie, a tutela dei detti principi costituzionali, come affermato anche in recenti arresti di questa Corte (cfr. Cass. 17 aprile 2015, n. 7984).
1.3.- Il carattere processuale della normativa abrogata e di quella sopravvenuta non comporta l'applicabilità immediata di quest'ultima ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della L. n. 18 del 2015, vale a dire ai giudizi introdotti con ricorso depositato prima del 19 marzo 2015 (cfr. Cass. 29 novembre 2002, n. 16935, sulla forma dell'atto introduttivo nel vigore della legge n. 117 del 1988).
Anzi, la rigorosa applicazione del principio tempus regit actum comporta conseguenze diametralmente opposte a quelle sostenute nella memoria del ricorrente.
Come è noto, secondo la dottrina tradizionale, recepita dalla giurisprudenza (Cass. 12 maggio 2000, n. 6099; nonchè, tra le altre, Cass. 20 settembre 2006, n. 20414 in motivazione, e Cass. 15 febbraio 2011, n. 3688), il principio del tempus regit actum trova fondamento nell'art. 11 preleggi e comporta che gli atti del processo traggano validità ed efficacia dalla legge vigente al tempo in cui sono compiuti.
Da tale principio derivano due conseguenze in caso di successione di norme processuali nel tempo: a) applicazione immediata della nuova regola ai processi pendenti con riguardo a tutti gli atti ancora da compiere; b) conservazione della validità e dell'efficacia degli atti compiuti nel vigore della regola abrogata (c.d. facta praeterita).
Alla prima conseguenza fa riferimento la dottrina pressochè unanime allorchè, con espressione ormai tralatizia, usa ripetere che lo jus superveniens in materia processuale è per sua natura di immediata applicazione.
Alla seconda conseguenza fa riferimento la giurisprudenza allorchè puntualizza che "il principio dell'immediata applicazione della legge processuale sopravvenuta...ha riguardo soltanto agli atti processuali successivi all'entrata in vigore della legge stessa, alla quale non è dato incidere, pertanto, sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, secondo il fondamentale principio del tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere" (Cass. n. 6099/2000 cit.). Con il corollario che quando il giudice procede ad un esame retrospettivo delle attività svolte, ne stabilisce la validità applicando la legge che vigeva al tempo in cui l'atto è stato compiuto, essendo la retroattività della legge processuale un effetto che può essere previsto dal legislatore con norme transitorie, ma che non può essere liberamente ritenuto dall'interprete (così Cass. n. 20414/06 cit., la cui motivazione prosegue osservando che "una indebita applicazione retroattiva della legge processuale si ha sia quando si pretenda di applicare la legge sopravvenuta ad atti posti in essere anteriormente all'entrata in vigore della legge nuova, sia quando si pretenda di associare a quegli atti effetti che non avevano in base alla legge del tempo in cui sono stati posti in essere").
Le decisioni appena menzionate esprimono tutte il principio, direttamente correlato alla regola del tempus regit actum, secondo cui gli effetti di tutti gli atti processuali (delle parti e del giudice) sono quelli regolati dalla legge vigente nel momento in cui l'atto (di parte) è posto in essere o il provvedimento (del giudice) è pronunciato, e non possono essere, invece, effetti che la legge sopravvenuta ricollega all'uno od all'altro.
Proprio perchè il principio del tempus regit actum è riferibile agli atti processuali ancora da compiere, con salvezza di quelli già compiuti, occorre chiedersi quali siano questi atti nella fattispecie in esame. Più precisamente, occorre chiedersi quale sia l'oggetto della disposizione della L. n. 117 del 1988, art. 5 e quale sia l'effetto dell'invocata immediata applicazione della norma sopravvenuta della L. n. 18 del 2015, art. 3, comma 2, tenendo presente che si tratta di norma soltanto abrogativa.
Quest'ultima notazione è importante, attesa la distinzione, operata in dottrina, tra le nozioni di vigenza e di efficacia della norma ed atteso che il punto controverso è se l'abrogazione della norma ne comporti il venir meno della vigenza o, piuttosto, come si dirà, la delimitazione della sua efficacia in relazione al tempo di compimento degli atti che ne sono oggetto.
Orbene, la L. n. 117 del 1988, art. 5 disciplina la domanda introduttiva della lite. Questo oggetto è fatto palese dal terzo comma dello stesso art. 5 che individua i parametri cui si deve attenere la deliberazione che chiude il giudizio previo sulle condizioni di ammissibilità, appunto, della domanda. I restanti commi 1, 2, 4 e 5 dello stesso art. 5 dettano le norme per la conduzione di questo giudizio e l'adozione della relativa deliberazione. Il giudizio di ammissibilità è riferito alla domanda introduttiva della causa sulla responsabilità, e questa causa, se la domanda è ammissibile, proseguirà secondo il rito ordinario di cognizione.
Allora, è consequenziale rispondere agli interrogativi posti sopra osservando che l'atto processuale di cui si occupa la L. n. 117 del 1988, art. 5 è appunto la domanda introduttiva della lite; che la disciplina che lo stesso articolo detta per questo atto processuale è l'assoggettamento ad un giudizio (o meglio ad un sub-procedimento o c.d. procedimento filtro) di ammissibilità; che la norma della L. n. 18 del 2015, art. 3, comma 2, ha abrogato il procedimento avente ad oggetto la domanda introduttiva; che se la norma sopravvenuta si applicasse immediatamente si avrebbe che la domanda presentata nel vigore della disciplina preesistente, verrebbe ammessa secondo la disciplina sopravvenuta. Pertanto, si applicherebbe quest'ultima con effetto retroattivo, facendone la legge applicabile ad un atto processuale compiuto prima della data della sua entrata in vigore.
Palese sarebbe la violazione proprio del principio la cui applicazione è invocata dal ricorrente, in quanto si avrebbe che un atto (di parte) del processo, quale è la domanda introduttiva della lite, pur essendo stato compiuto nel vigore di un'apposita norma, non sarebbe da questa disciplinato, nel senso che gli effetti di esso verrebbero regolati secondo la legge sopravvenuta.
Per ottenere questo effetto, alla stregua del principio di irretroattività di cui all'art. 11 preleggi, sarebbe stata necessaria una nuova apposita previsione del legislatore. In mancanza, la legge, anche processuale, non dispone che per l'avvenire; essa non ha effetto retroattivo.
La peculiarità della questione posta dal ricorso è data dal fatto che la norma abrogata detta la disciplina di un atto di parte, sottoponendo lo stesso ad un giudizio.
Tuttavia, proprio perchè si tratta di un giudizio di ammissibilità in corso alla data di entrata in vigore della nuova norma ma riferito ad un atto processuale posto in essere nel vigore della vecchia, esso non potrebbe interrompersi o perdere efficacia o, comunque, "venire meno", se non facendo "venire meno" gli effetti ricollegati all'atto di parte (domanda giudiziale) dalla legge vigente nel momento in cui l'atto è stato compiuto.
1.4.- La vicenda presenta delle analogie con altra di cui si è occupata questa Corte di legittimità, traendo dall'art. 11 preleggi conseguenze applicative analoghe a quelle delle quali si è fin qui detto.
Si intende fare riferimento alla sopravvenuta abrogazione per effetto della L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 89 della L. 27 luglio 1978, n. 392, artt. 43 e 45, che prevedevano il tentativo di conciliazione quale condizione di procedibilità della domanda in materia di canone locatizio. In quella situazione si affermò che, per il principio per cui gli atti processuali sono regolati dalla legge vigente nel momento del loro compimento, la sopravvenuta abrogazione della norma che prevede una condizione di procedibilità della domanda non fa sì che quest'ultima diventi procedibile, anche se proposta in assenza di quella condizione, ma nella vigenza delle norme poi abrogate. La successiva abrogazione, infatti, non retroagisce, nel senso che la procedibilità della domanda va sempre apprezzata alla stregua delle disposizioni allora vigenti (Cass. 4 novembre 1996, n. 9544; Cass. 13 aprile 2000, n. 4803; Cass. 25 novembre 2002, n. 16576; Cass. 7 febbraio 2006, n. 2527).
Analogamente, nella specie, va considerato che la L. n. 117 del 1988, art. 5 prevede un giudizio preliminare di delibazione che è configurato come fase di un unitario giudizio di merito, nella quale è demandato al giudice di apprezzare le condizioni di ammissibilità della domanda. Questo apprezzamento va fatto secondo la disciplina processuale vigente all'epoca di proposizione della domanda.
Occorre cioè tenere ben presente che, quando la legge prevede che una domanda sia soggetta a determinate condizioni di ammissibilità e disciplina il procedimento di verifica dell'ammissibilità nel contesto della stessa norma (come è per la L. n. 117 del 1988, art. 5), l'intervento di una norma che abroga quest'ultima in foto -per essere inteso nel senso del pieno rispetto del canone di successione delle leggi nel tempo per cui la legge nuova dispone, cioè regola il suo oggetto di disciplina, solo per l'avvenire- esige che l'efficacia di abrogazione si correli in primo luogo alle condizioni di ammissibilità: ne segue che, poichè esse connotavano la domanda al momento in cui venne proposta, l'efficacia abrogativa della norma sopravvenuta non può che dispiegarsi se non per le domande proposte successivamente all'entrata in vigore della novella.
1.5.- Nell'occuparsi del fenomeno della successione nel tempo della legge processuale civile, questa Corte ha precisato la portata del principio tempus regit actum in termini tali da consentire di "dare adeguato rilievo all'affidamento legislativo sotteso all'art. 11 disp. gen." sia nel senso che esso "preclude la possibilità di ritenere che gli effetti dell'atto processuale già formato al momento dell'entrata in vigore della nuova disposinone siano da questa regolati" (Cass. n. 6099/2000 cit.), sia nel senso che esso "impone di tenere conto della giusta aspettativa di chi, avendo scelto di promuovere un giudizio in riferimento alle prescrizioni di rito vigenti al tempo in cui ha proposto la domanda, si veda alterare in peius, in base alle nuove regole, la possibilità di uscirne vincitore; o, per converso, di resistere con successo all'altrui pretesa" (Cass. 7 ottobre 2010, n.20811).
Oltre che nella giurisprudenza di legittimità, l'opinione in esame trova conforto nelle riflessioni di quella parte della dottrina che ha evidenziato come, allorchè disposizioni particolari di diritto transitorio non siano in concreto state previste, un coerente sistema di norme di diritto intertemporale (intendendosi per tale un insieme di regole o principi generali volti a determinare la norma in concreto applicabile nel conflitto tra legge precedente e legge sopravvenuta) dovrebbe essere ricostruito dall'interprete, avendo riguardo, da un lato, ai principi costituzionali sulla tutela dei diritti (ed in primo luogo al principio di affidamento in materia processuale) e, dall'altro, ai principi stabiliti nelle preleggi sull'efficacia della legge nel tempo.
L'applicazione della disciplina sopravvenuta all'atto processuale ancora da compiere dovrebbe dunque risultare coerente con la serie degli atti anteriori, non potendosi consentire che il principio dell'operatività immediata incida negativamente sull'unità e coerenza interna del singolo procedimento, nè che si traduca in un'indebita applicazione retroattiva della nuova legge.
Allo stesso modo, una ricostruzione del sistema di diritto intertemporale rispettoso delle regole in materia di efficacia della legge nel tempo, non potrebbe non tenere conto del disposto dell'art. 11 preleggi, a norma del quale la legge (e, dunque, anche la legge processuale) non dispone che per l'avvenire, sicchè lo jus superveniens processuale dovrebbe bensì trovare applicazione in relazione ai singoli atti da compiere, ma non dovrebbe determinare la (retroattiva) sostituzione di un nuovo rito ad un rito precedente nella disciplina del procedimento iniziato nel vigore del vecchio rito.
Orbene, nel passaggio tra la vecchia e la nuova disciplina processuale dell'azione risarcitoria nei confronti dello Stato per danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non è stato mutato il rito, inteso come insieme di norme vigenti al momento della domanda, ma è stata modificata la fase introduttiva del processo. Tuttavia, non va trascurato il dato, sopra evidenziato, che questa fase consisteva), a sua volta, nell'espletamento di un giudizio di ammissibilità della domanda. Iniziato questo giudizio al momento della proposizione della domanda, nel compimento di tutti i gradi di questo giudizio la parte convenuta aveva fatto legittimo affidamento.
1.6.- Giova qui precisare che non si intende affermare l'esistenza nell'attuale sistema normativo del principio compendiato nel brocardo, coniato da altra dottrina, del tempus regit processum, sul presupposto che il principio dell'applicazione immediata delle norme processuali nei giudizi in corso, troverebbe applicazione soltanto nelle ipotesi in cui sia previsto da espressa disciplina transitoria, e che, al contrario, l'esigenza di salvaguardare l'unità e la coerenza dell'attività processuale già compiuta rispetto a quella ancora da compiere, unitamente al rispetto del canone di irretroattività, imporrebbe di ritenere che, se la legge non dispone che per l'avvenire, la legge processuale non dispone che per i processi futuri o, quanto meno, per i gradi di giudizio futuri.
Le ragioni per le quali la tesi non trova fondamento nell'attuale diritto positivo sono state ampiamente esposte da Cass. n. 3688/11 cit, alla cui motivazione non può che farsi qui integrale rinvio.
Quest'ultima decisione peraltro va richiamata anche quanto all'interpretazione dell'art. 11 preleggi, per la quale sottolinea l'importanza dell'oggetto della "singola norma di una legge in materia processuale" sopravvenuta, quindi della fattispecie astratta che essa intende disciplinare.
Anche sotto questo profilo risulta corroborato il ragionamento svolto sopra, a proposito della L. n. 117 del 1988, art. 5 e della sua abrogazione.
L'art. 5 ha ad oggetto tutto intero un sub-procedimento di delibazione della domanda; la norma sopravvenuta l'ha abrogato appunto nella sua interezza; tale abrogazione non può valere che per l'avvenire.
In conclusione, va affermato che la sopravvenuta abrogazione della disposizione di cui alla L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 5, per effetto della L. 27 febbraio 2015, n. 18, art. 3, comma 2, non esplica efficacia retroattiva, onde l'ammissibilità della domanda di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie deve essere delibata alla stregua delle disposizioni processuali vigenti al momento della sua proposizione. Il giudizio di ammissibilità previsto dall'art. 5 cit. pertanto prosegue secondo le norme poste da questa disposizione qualora la domanda sia stata avanzata con ricorso depositato prima del 19 marzo 2015, data di entrata in vigore della L. n. 18 del 2015.
Il principio trova riscontro in recenti arresti di questa Corte in cui si è affermata l'applicabilità della L. n. 117 del 1988, art. 5 ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della L. n. 18 del 2015 (Cass. n. 7924/15 cit.), nonchè l'inapplicabilità ai giudizi pendenti delle modifiche apportate da quest'ultima legge (Cass., ord. 14 maggio 2015, n. 9916; Cass. ord. 18 maggio 2015, n. 10121).
1.7.- Detto principio, infine, non trova smentita nella giurisprudenza formatasi successivamente alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 274 c.c., che prevedeva un giudizio di ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale.
L'art. 274 c.c. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte Cost. n. 50 del 10 febbraio 2006.
Per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, il giudizio di ammissibilità sull'azione per la dichiarazione giudiziale paternità o maternità naturale è venuto meno, con conseguente proponibilità dell'azione direttamente al giudice di merito secondo le regole ordinarie. Tale diretta proponibilità, secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale, si è determinata anche nei procedimenti pendenti, nei quali la pronuncia di illegittimità costituzionale ha travolto il giudizio di ammissibilità in corso e i provvedimenti eventualmente emessi dal Tribunale e dalla Corte di Appello.
Orbene, la vicenda dell'abrogazione della L. n. 117 del 1988, art. 5 e quella della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 274 c.c. presentano differenze tali che non consentono di accomunarle sul piano delle implicazioni applicative.
Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale operano ex tunc, escludendo dall'ordinamento con efficacia retroattiva la norma ritenuta illegittima, con il solo limite dei rapporti già esauriti in modo definitivo per avvenuta formazione del giudicato o per maturazione di preclusioni processuali, decadenze e prescrizioni non investite dalla pronuncia di incostituzionalità (arg. L. 11 marzo 1953, n. 87, ex art. 136 Cost. e art. 30, comma 3);
gli effetti dell'abrogazione operano, invece, ex nunc, disciplinando, soltanto per l'avvenire, la materia già regolata dalla norma abrogata (arg. ex art. 11 preleggi): la radicale differenza tra le due situazioni ha indotto la dottrina a puntualizzare che il venir meno ex tunc della fonte del diritto (conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale) esclude l'applicazione della regola tempus regit actum, la quale presuppone la successione nel tempo di fonti valide (propria del fenomeno abrogativo).
1.8.- Privi di pregio risultano, infine, gli ulteriori argomenti esposti nella memoria a sostegno della tesi dell'applicabilità immediata della norma abrogativa.
Quanto al contenuto della L. n. 18 del 2015, art. 1, laddove enuncia la finalità delle modificazioni apportate alla L. n. 117 del 1988, è da escludere che essa operi come una disposizione transitoria, nel senso preteso dal ricorrente.
L'interpretazione letterale e sistematica della disposizione e le ragioni della sua introduzione depongono in tutt'altro senso.
Nell'individuare i presupposti sostanziali della responsabilità dello Stato per i danni derivanti da comportamenti, atri e provvedimenti posti in essere da un magistrato nell'esercizio delle funzioni, la L. n. 117 del 1988, art. 2, nella formulazione originaria esigeva la necessità della presenza del dolo o della colpa grave del magistrato (salvi i casi di diniego di giustizia di cui al successivo art. 3), tipizzando la colpa grave nelle fattispecie di grave violazione di legge e di affermazione (o negazione) di un fatto incontrastabilmente escluso (o risultante) dagli atti del procedimento, purchè determinate da negligenza inescusabile (commi 1 e 3); escludeva la responsabilità con riguardo all'attività di interpretazione delle norme del diritto e di valutazione del fatto e delle prove (comma 2).
Entrambe le limitazioni sono state ritenute in contrasto con il diritto dell'Unione Europea dalla sentenza della Corte di Giustizia 24 novembre 2011 (causa C-379/2010: Commissione Europea), posta a base, come si dirà, del primo motivo di ricorso.
In particolare, con quest'ultima sentenza si è statuito: "La Repubblica Italiana, 1) escludendo qualsiasi responsabilità... per i danni arrecati a seguito di una violazione del diritto dell'Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove... e 2) limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave (conducendo tale limitazione ad escludere la responsabilità in ipotesi di violazione manifesta del diritto vigente), ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 1 e 2,...è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti inforca del principio generale di responsabilità degli stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado".
Con questa decisione la Corte di Giustizia ha così accolto il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione Europea nei confronti della Repubblica Italiana.
Tale sentenza ha occasionato, anche a seguito dell'avvio di una procedura d'infrazione da parte della Commissione Europea, l'approvazione della L. 27 febbraio 2015, n. 18. La scelta del legislatore non è stata nel senso di prevedere un'autonoma apposita azione di responsabilità nei confronti dello Stato per violazione del diritto dell'Unione, bensì di ridefinire i presupposti della responsabilità dello Stato per i danni derivanti ai singoli da comportamenti, atti e provvedimenti posti in essere da magistrati nell'esercizio delle funzioni.
L'art. 1 della novella, disponendo che "la presente legge introduce disposizioni volte a modificare le norme di cui alla L. 13 aprile 1988, n. 117, alfine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell'appartenenti dell'Italia all'Unione Europea", enuncia lo scopo della riforma della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, che è agganciata alla pretesa risarcitoria azionabile nei confronti dello Stato. Trattasi di enunciazione che, costituendo il vero e proprio programma della riforma, non può che essere rivolta alla sua (futura) applicazione.
Non vi è alcun indice, nè letterale nè sistematico, che induca ad attribuire alla disposizione il significato di deroga al principio generale dell'irretroattività della legge sopravvenuta, di cui al più volte richiamato art. 11 preleggi. Piuttosto, si tratta di norma che si spiega tenendo conto delle vicende che hanno portato all'emanazione della L. n. 18 del 2015, sopra sinteticamente richiamate.
L'accertato contrasto della L. n. 117 del 1988, art. 2, nella sua formulazione originaria, con il diritto dell'Unione Europea potrà comportare che esso (qualora ancora applicabile ratione temporis) debba essere disapplicato, alla stregua delle regole elaborate dalla giurisprudenza comunitaria (per la quale la violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di uno Stato membro da luogo a responsabilità dello Stato medesimo nei confronti del singolo allorchè ricorrano le tre seguenti condizioni: A) la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti a singoli; B) la violazione sia stata manifesta e sufficientemente caratterizzata in relazione al grado di chiarezza e precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell'errore di diritto, alla posizione eventualmente adottata da un'istituzione comunitaria e alla mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 Trattato UE (già art. 234 Trattato CE); C) esista un nesso causale diretto tra la violazione e il danno subito dal singolo: tra le altre, sentenze 19 novembre 1991, Francovich e a.; 5 marzo 1996, Cause riunite C-46/93 e C-48/93 Brasserie du Pecheur e Factortame; 30 settembre 2003, causa C-224/01, Kobler, richiamate dalle sentenze 13 giugno 2006, causa C-l 73/2003, Traghetti del Mediterraneo s.p.a. e 24 novembre 2011, causa C- 379/2010, Commissione Europea).
Di certo, detto (eventuale) contrasto non potrebbe valere ad attribuire efficacia retroattiva alla norma che ha abrogato il giudizio di ammissibilità. E ciò anche in ragione del fatto che quest'ultimo, oltre che conforme ai parametri costituzionali, alla stregua delle pronunce della Consulta sopra richiamate, è, in sè compatibile, con il diritto dell'Unione Europea e con la giurisprudenza comunitaria.
Tanto è vero che nemmeno il ricorrente contesta espressamente siffatta compatibilita, e comunque essa è stata di recente ribadita anche da questa Corte con la sentenza 3 gennaio 2014, n. 41, alla cui motivazione si fa integrale rinvio.
1.8.1.- Ancor meno consistente risulta l'argomento che fa leva sulla trattazione in pubblica udienza dei ricorsi qui riuniti.
Per superarlo, oltre a richiamare la massima di Cass. 13 dicembre 1999, n. 13919 (secondo cui "In tema di responsabilità civile dei magistrati e con particolare riguardo alla fase di ammissibilità della domanda risarcitoria (che, ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 5, e deliberata in camera di consiglio sia in primo grado che in sede di reclamo), non si rinvengono, nè nel citato art. 5, nè nell'art. 375 c.p.c., comma 1, argomenti testuali dai quali desumere che il rito camerale debba essere adottato anche per la trattazione e deliberazione del ricorso per cassazione avverso il decreto pronunciato dalla Corte d'appello in sede di reclamo relativo alla ammissibilità della predetta domanda risarcitoria"), è sufficiente osservare che si è trattato di una scelta volta a garantire una più ampia esplicazione dei diritti di difesa di tutte le parti coinvolte nel giudizio di legittimità. La sua rilevanza si ferma tuttavia al mero piano della tecnica del processo (e della correlata garanzia dei diritti delle parti in seno al processo), senza che possano inferirsi conseguenze sul piano della decisione.
2.- Prima di esaminare il primo motivo del ricorso principale, col quale si deduce (art. 360 c.p.c., n. 3) violazione ed erronea applicazione della L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 1 e 2, vecchia formulazione, per mancata ottemperanza da parte della Corte di Appello di Trento a quanto statuito dalla Corte di Giustizia con la sentenza 24.11.2011 in causa C-379, è opportuno esaminare i motivi che attengono al merito del giudizio di inammissibilità dell'azione espresso dalla Corte d'Appello. Col secondo motivo, il ricorrente deduce (art. 360 c.p.c., n. 3) violazione ed erronea applicazione della L. n. 117 del 1988, art. 4, n. 2, vecchia formulazione, sui presupposti di ammissibilità dell'azione risarcitoria, per avere la Corte di Appello indebitamente, da un lato, ritenuto non esperiti tutti i mezzi di impugnazione avverso i provvedimenti asseritamente lesivi (in ragione della mancata proposizione del previsto reclamo in relazione al primo decreto emesso nel corso del procedimento ex art. 2409 c.c.) e, dall'altro lato, ritenuto spirato il termine di decadenza biennale in relazione alle pretese derivanti dai provvedimenti emessi in occasione del procedimento ex art. 2409 c.c. (avuto riguardo al lasso di tempo intercorso tra l'ultimo provvedimento e il ricorso ex L. n. 117 del 1988).
Pregiudiziale è l'esame della censura concernente tale ultima statuizione della Corte di merito, dato che la sua infondatezza rende superfluo l'esame dell'altra, che resta assorbita perchè rivolta avverso la statuizione di inammissibilità per mancato preventivo esperimento dei mezzi di impugnazione.
Il ricorrente principale sostiene che vi sarebbe un nesso causale tra il procedimento ex art. 2409 c.c. e il successivo processo di fallimento, sicchè il dies a quo del termine biennale previsto dalla L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2, (nel testo all'epoca vigente), andrebbe riferito, non già alla data di conclusione del primo procedimento (tra l'altro da fissare, a suo dire, al 16 giugno 2010, epoca in cui era stata definitivamente rigettata la richiesta di revoca del decreto dell'11.04.2005), ma alla data di conclusione del secondo (4.06.2012: data della sentenza della Cassazione reiettiva del ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia confermativa del rigetto dell'opposizione alla dichiarazione di fallimento).
2.1.- Il motivo è infondato.
La circostanza che il termine di decadenza previsto dalla L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2, secondo periodo, sia in concreto decorso risulta dagli atti e non è neppure oggetto di controversia tra le parti, in quanto:
- il primo provvedimento adottato dal Tribunale di Treviso ai sensi dell'art. 2409 c.c., comma 2, è del 28 settembre 2004;
il secondo provvedimento adottato dal Tribunale di Treviso ai sensi dell'art. 2409 c.c., comma 4, è stato depositato l'11 aprile 2005;
- il decreto emesso in sede di reclamo dalla Corte d'Appello di Venezia reca la data del 16-29 giugno 2005;
- la sentenza della Corte di Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso quest'ultimo decreto è la n. 13767 del 12 giugno 2007;
- l'ordinanza con la quale la Corte d'Appello di Venezia ha dichiarato inammissibile la revoca del decreto del 16-29 giugno 2005 è stata pronunciata in data 15 giugno 2010;
la domanda risarcitoria è stata proposta con ricorso depositato il 7 ottobre 2013.
D'altronde, il ricorrente non ha contestato questa tempistica ma ha dedotto unicamente l'assenza di soluzione di continuità tra i due procedimenti, assumendo che la denuncia ex art. 2409 c.c. avrebbe costituito la causa del successivo fallimento. In proposito è corretto in diritto il ragionamento seguito dalla Corte di Appello di Trento, che si fonda sulla constatazione che i due procedimenti sono distinti e autonomi, il primo trovando fondamento nei dedotti fatti di mala gestio degli amministratori, il secondo nel presupposto oggettivo dell'insolvenza della società. Nè è riscontrabile alcun rapporto giuridico tra l'uno e l'altro, tale che il secondo debba essere preceduto dal primo, sicchè questo si venga a configurare come indefettibile presupposto dell'istanza e/o della dichiarazione di fallimento di una società.
La successione cronologica tra i due procedimenti e la consequenzialità puramente di fatto tra l'uno e l'altro (che si è venuta a determinare per la prospettazione dell'insolvenza da parte dell'amministratore giudiziario) non valgono a saldare i due procedimenti ai fini del decorso del termine di decadenza di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 4.
Il nesso tra i due procedimenti è stato peraltro escluso da questa Corte con la sentenza 4 giugno 2012, n. 8946, pronunciata nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, nella cui motivazione si legge che la circostanza che il fallimento, constatato lo stato di insolvenza, sia stato dichiarato d'ufficio "elimina ogni eventuale nesso di causalità fra gli effetti riconducibili alle iniziative adottate a causa e nell'ambito della procedura ex art. 2409 c.c. e il contestato fallimento".
La L. n. 117 del 1988, art. 4, comma 2 (sul punto non modificato dalla legge sopravvenuta del 2015) è chiaro nel prevedere che il termine decorre "dal momento in cui l'anione è esperibile" e questo momento è individuato nell'esperimento di tutti i mezzi ordinari di impugnazione "e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento"; l'esaurimento del "grado del procedimento nel quale si è verificato il fatto che ha cagionato danno" è infatti previsto come ipotesi alternativa a quelle del procedimento regolato mediante gli ordinari rimedi impugnatori o di provvedimento modificabile o revocabile. Il riferimento normativo è quindi fatto al singolo procedimento, concluso da un determinato provvedimento, nell'ambito del quale la parte lamenti si siano avuti comportamenti, atti o provvedimenti illeciti posti in essere da magistrati. Nella specie, peraltro, la stessa domanda risarcitoria distingue nettamente gli atti ed i provvedimenti illeciti (asseritamente) posti in essere nel procedimento ex art. 2409 c.c. (adozione del relativo procedimento per la s.r.l. laddove sarebbe stato dettato per le s.p.a. e violazione del contraddittorio) e gli atti ed i provvedimenti illeciti (asseritamente) posti in essere nella procedura pre- fallimentare e fallimentare (violazione del contraddittorio).
L'azione risarcitoria ben avrebbe potuto essere tempestivamente esercitata per i primi, non riscontrandosi alcun ostacolo normativo o di fatto al relativo tempestivo esercizio, essendo configurabile come danno risarcibile -tenuto conto delle prospettazioni del ricorrente- la determinazione dello stato stesso di insolvenza, a causa dell'(asserita) illegittimità della procedura ex art. 2409 c.c. e/o dell'(asserito) illecito comportamento degli organi intervenuti.
D'altronde, questa Corte ha rilevato come nemmeno l'illegittimità della procedura di nomina dell'amministratore giudiziario "potesse essere ostativa alla dichiarazione di fallimento d'ufficio" (Cass. n. 8946/12, cit.).
2.2.- Detto quanto sopra, non rileva che, in sede di adeguamento del diritto interno, con la L. 27 febbraio 2015, n. 18, di modifica della L. n. 117 del 1988, il legislatore nazionale abbia novellato anche la disposizione contenuta nell'art. 4, comma 2, secondo periodo, aumentando il termine di decadenza da due a tre anni.
Le ragioni di inapplicabilità della normativa sopravvenuta sono quelle già esposte sopra a proposito dell'art. 5, essendo anche la norma dell'art. 4 volta a disciplinare un atto oramai definitivamente compiuto.
Per di più, il tempo trascorso dall'ultimo dei provvedimenti rilevanti per la definizione del procedimento ex art. 2409 c.c. supera abbondantemente anche il triennio, avuto riguardo alla data di deposito dell'atto introduttivo della presente controversia, il 7 ottobre 2013.
In conclusione, il secondo motivo di ricorso va rigettato quanto alla dichiarazione di inammissibilità per decadenza, restando inammissibile per carenza di interesse la censura concernente la dichiarazione di inammissibilità per mancato esperimento dei mezzi di impugnazione endo-procedimentali.
3.- Gli altri motivi di ricorso attengono alla questione della manifesta infondatezza della domanda risarcitoria formulata contro lo Stato.
All'interno di questo ordine di motivi può ulteriormente distinguersi tra quelli che trovano fondamento in violazioni asseritamente commesse soltanto nel procedimento ex art. 2409 c.c. e quelli che trovano fondamento in violazioni asseritamente commesse anche nel giudizio di fallimento.
L'esame dei primi è assorbito dal rigetto del motivo concernente la ritenuta inammissibilità dell'azione risarcitoria per detto procedimento, che rende inammissibili per carenza di interesse gli altri che attengono al merito delle violazioni che sarebbero state commesse nel procedimento ex art. 2409 c.c..
Conseguentemente, è inammissibile il quarto motivo, che trova fondamento nella dedotta errata applicazione dell'art. 2409 c.c., sul presupposto che la disciplina contenuta in questa disposizione, dettata esclusivamente per le società per azioni, sarebbe stata dai giudici indebitamente estesa ad una società a responsabilità limitata. 3.1. - La statuizione di decadenza dall'azione risarcitoria concernente le (pretese) violazioni attinenti il procedimento ex art. 2409 cod. civ., quale risulta dal rigetto del secondo motivo di ricorso, rende inammissibile anche il quinto motivo, che riguarda il merito della stessa azione.
Con esso infatti è state dedotta (art. 360 c.p.c., n. 3) violazione e mancata applicazione dell'art. 2 Cost., comma 2, nonchè degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., nonchè infine degli artt. 88 e 89 cod. proc. civ., sul presupposto della violazione, da parte dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato nel corso del giudizio di responsabilità, del dovere processuale di lealtà e probità, nonchè del dovere generale di correttezza, perchè, in questo giudizio, avrebbe sostenuto un'interpretazione dell'art. 2409 cod. civ. diametralmente opposta a quella sostenuta dall'Avvocatura Generale dello Stato nei due giudizi di legittimità costituzionale conclusisi con la sentenza n. 481/2005 e con l'ordinanza n. 116/2014.
4.- Tra le violazioni asseritamente commesse sia nel procedimento ex art. 2409 c.c. sia nel giudizio di fallimento rientra quella posta a fondamento del terzo motivo di ricorso, con cui è stata lamentata la violazione e mancata applicazione degli artt. 78 e 182 c.p.c. per avere la Corte di Appello (con riguardo ad entrambi i procedimenti) escluso la necessità della nomina del curatore speciale ex art. 78 c.p.c., omissione dalla quale sarebbe invece derivata la lesione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa della società, che sarebbe restata incolpevolmente contumace.
Con riguardo alla violazione asseritamente commessa in occasione del procedimento ex art. 2409 c.c., anche questo motivo è inammissibile per le ragioni di cui sopra.
Il motivo di ricorso non merita comunque accoglimento, in quanto infondato per la parte in cui assume essersi verificata la medesima violazione nel corso del giudizio di fallimento.
Il giudizio della Corte di appello appare infatti ineccepibile nella parte in cui evidenzia che nel processo per la dichiarazione di fallimento, la società dichiarata fallita era rappresentata dall'amministratore giudiziario nominato con il secondo decreto ex art. 2409 cod. civ., il quale non era in conflitto di interessi, di tal che non vi era spazio per la nomina del curatore speciale nè può dirsi verificata una lesione del diritto di difesa della società e del principio del contraddittorio.
Il ricorrente assume che il conflitto di interessi si sarebbe avuto, nella specie, per il fatto che l'amministratore giudiziario ebbe a proporre l'instaurazione officiosa della procedura fallimentare.
Se si considera che risulta dagli atti e dal decreto impugnato che egli si trovava ad esercitare tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione (come da decreto dell'8 aprile 2005), si deve concludere per la totale equiparazione al legale rappresentante della società. Questa comporta che la prospettazione dello stato di insolvenza non fosse, di per sè, indice di conflitto di interessi tra il medesimo e la società, essendo il legale rappresentante addirittura legittimato alla presentazione dell'istanza di fallimento.
Intanto può aversi conflitto di interessi tra il legale rappresentante e la società, rilevante ai sensi dell'art. 78 c.p.c., comma 2, in quanto si prospetti un contrasto, in concreto, tra l'interesse personale della persona fisica dotata di poteri rappresentativi e l'interesse della società: ciò che, oltre ad essere incompatibile in astratto con l'ufficio di amministratore giudiziario, è stato in concreto escluso dalla Corte d'Appello, e non è nemmeno dedotto specificamente da parte ricorrente.
In relazione al giudizio di opposizione, è agevole poi rilevare che, per giurisprudenza consolidata, non sussiste litisconsorzio necessario in capo al fallito, il cui diritto di difesa trova adeguata tutela nella possibilità di partecipare al giudizio medesimo in veste di interventore volontario, ex art. 105 c.p.c., comma 2, (Cass. civ., Sez. 1, 30 ottobre 2008, n. 26108; Cass. civ., Sez. 1, 6 febbraio 1998, n.1225). La circostanza che nel caso di specie la società "F.lli Barro Giovanni & Luigi s.r.l." non avesse inteso esercitare il suo potere di intervento in tale giudizio non aveva ovviamente determinato il sorgere dei presupposti per la nomina del curatore speciale, sicchè neppure con riguardo a tale fase del giudizio è riscontrabile una lesione del principio del contraddittorio.
E comunque, non di ciò si tratta in questa sede, bensì della responsabilità dei giudici delle procedure pre-fallimentare e di opposizione alla dichiarazione di fallimento. Pertanto, se non rilevano i profili di difetto di legittimazione attiva del ricorrente B. in proprio, rileva tuttavia che l'illecito da questi dedotto concerne attività di interpretazione delle norme e che questa risulta essere stata conforme, come detto, alla giurisprudenza di legittimità.
5.- Tanto chiarito in ordine alle violazioni di legge che si assumono essere state perpetrate, può ora esaminarsi il primo motivo di ricorso, con il quale B.M. - sul presupposto che le predette violazioni avrebbero dovuto essere valutate facendo applicazione, non già della disciplina di diritto interno concernente i presupposti della responsabilità dello Stato per i danni derivanti da atri e comportamenti posti in essere dai magistrati nell'esercizio delle funzioni (L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 1 e 2), ma della ben più pregnante disciplina posta dal diritto dell'Unione Europea, quale risultante dalle sentenze 13 giugno 2006 (causa C-173/2003: Traghetti del Mediterraneo s.p.a.) e 24 novembre 2011 (causa C-379/2010: Commissione Europea), della Corte di Giustizia - ha censurato il decreto della Corte di Appello di Trento per non avere applicato i principi fissati nella sentenza 24.11.2011 in causa C-379, chiedendo altresì a questa Corte di Cassazione di rinviare pregiudizialmente ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia al fine di accertare con efficacia di giudicato la non conformità della L. n. 117 del 1988, art. 2, vecchia formulazione (indebitamente applicato nella fattispecie) al diritto Europeo.
5.1.- Il motivo non merita accoglimento.
La sentenza della Corte di Giustizia 24.11.2011 in causa C-379, occupandosi delle violazioni del diritto dell'Unione poste in essere da organi giurisdizionali di ultima istanza, riprende il solco della giurisprudenza precedente sul tema generale della responsabilità dello Stato per i danni derivanti da comportamenti, atti e provvedimenti posti in essere da magistrati nell'esercizio delle funzioni e stigmatizza la non conformità al diritto Europeo dell'art. 2, vecchia formulazione, secondo quanto già esposto sopra.
Tuttavia, proprio per il fatto che la non conformità della norma al diritto Europeo è stata ripetutamente affermata dalla giurisprudenza Europea, che ben ha chiarito la portata di tale valutazione, non vi è spazio alcuno per un nuovo rinvio pregiudiziale.
Inoltre, nella specie non può che essere ribadito quanto già accertato circa l'insussistenza delle violazioni di legge dedotte dal ricorrente, in specie con riferimento alla procedura fallimentare, poichè non vi è stata alcuna manifesta violazione delle norme giuridiche indicate da quest'ultimo (a prescindere dal fatto che trattasi di norme del diritto interno nazionale e che la violazione venga ascritta ad organi giurisdizionali non di ultima istanza).
Questa insussistenza comporta la manifesta infondatezza dell'azione, così come affermato dalla Corte di merito.
Tenuto conto di ciò, nonchè della pur riscontrata decadenza dall'azione per il procedimento ex art. 2409 cod. civ., è corretto il giudizio di inammissibilità della domanda espresso nel provvedimento qui impugnato. In conclusione, il ricorso principale va rigettato.
6.- Premesso che la rilevata nullità dei controricorsi, non esime il collegio dall'esaminare le questioni fatte oggetto di apposite eccezioni, ma rilevabili d'ufficio, va dichiarata l'inammissibilità del ricorso incidentale proposto dalla società "F.lli Barro Giovanni & Luigi s.r.l.".
Al giudizio de quo sono infatti inapplicabili gli artt. 370 e 371 cod. proc. civ., poichè la fase introduttiva per la decisione sull'ammissibilità della domanda, anche in sede di legittimità, è interamente disciplinata dalla norma speciale della L. n. 117 del 1988, art. 5, comma 4.
Si è già detto sopra che l'art. 5 regola per intero un giudizio di ammissibilità che si colloca, quale apposito sub-procedimento, nella fase introduttiva del pur unitario giudizio di responsabilità. La norma è in deroga alle previsioni sul rito ordinario di cognizione in sede di merito e di legittimità con essa incompatibili. La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi al riguardo affermando, sia pure ad altri fini, l'inapplicabilità degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ. (cfr. Cass. 30 luglio 1999, n. 3260; Cass. 10 ottobre 2003, n. 15156; Cass. 20 gennaio 2006, n. 1104; Cass. 25 settembre 2012, n. 16278).
Tenuto conto di quanto disposto dalla L. n. 117 del 1988, art. 5, comma 4, va escluso che il giudizio di ammissibilità in Cassazione consenta la presentazione di ricorso incidentale da parte di soggetto diverso dal Presidente del Consiglio dei Ministri (cfr., per l'ammissibilità di questo, Cass. n. 3260/99 cit) e del magistrato/i intervenuto/i ai sensi dell'art. 6 della stessa legge.
Il termine di dieci giorni successivi al deposito del ricorso nella cancelleria della Corte d'Appello, assegnato per "costituirsi... depositando memoria e fascicolo presso la cancelleria", è espressamente riferito soltanto all'"altra parte". Tale si deve intendere il soggetto resistente, vale a dire, ai sensi del precedente art. 4, il Presidente del Consiglio dei Ministri (alla cui posizione processuale è equiparata quella dell'intervenuto ex art. 6). Nei confronti di quest'ultimo soltanto è proposta la domanda, della cui ammissibilità si tratta, e perciò soltanto quest'ultimo è "altra parte" rispetto alla parte soccombente nei gradi di merito del giudizio di ammissibilità.
Ove nel giudizio di ammissibilità della domanda vi siano più parti soccombenti dinanzi alla Corte d'Appello, ciascuna di queste ha l'onere di proporre l'impugnazione avverso il decreto di inammissibilità nel termine di trenta giorni dalla sua notificazione, a prescindere dall'avvenuto deposito di ricorso per cassazione da parte di altro soccombente.
Giova aggiungere che siffatta interpretazione della L. n. 117 del 1988, art. 5, comma 4, oltre ad essere coerente con la specialità riconosciuta alla norma e con la sua lettera, è anche conforme alla ratio legis che vi è sottesa: quella di evitare la dilatazione dei tempi processuali che si avrebbe per la necessaria difesa con ulteriore memoria (o controricorso) a ricorso incidentale e per il necessario rinvio della trasmissione degli atti dalla corte d'appello alla Corte di cassazione.
6.1.- Nel caso di specie, essendo stato notificato il decreto della Corte d'Appello in data 20 gennaio 2015, il termine d'impugnazione per tutte le parti soccombenti era fissato al 19 febbraio 2015.
Il ricorso incidentale è stato depositato in data 7 marzo 2015 e spedito per le notificazioni in data 9 marzo 2015. Esso è inammissibile perchè tardivo.
7.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, tenuto conto che l'attività difensiva dello Stato Italiano - Presidenza del Consiglio dei Ministri si è svolta validamente soltanto quanto alla partecipazione alla discussione.
P.Q.M.
La Corte, decidendo sui ricorsi, rigetta il principale e dichiara inammissibile l'incidentale. Condanna il ricorrente principale e la società ricorrente incidentale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, in favore dello Stato Italiano - Presidenza del Consiglio dei Ministri, che liquida, per l'uno e per l'altra, nell'importo complessivo di Euro 6.100,00 ciascuno, oltre spese prenotate a debito.
Trattandosi di causa esente, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
Così deciso in Roma, il 8 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2015