Reiterati provvedimenti disciplinari (anche illegittimi) nei confronti del dipendente non costituiscono mobbing
Cassazione sez. Lavoro, Sentenza 18.02.2015 n. 3256 - Dott. Vincenzo Frandina
Per la Cassazione, Sentenza del 18 febbraio 2015, n. 3256, non sono assimilabili alla fattispecie di mobbing i ripetuti provvedimenti disciplinari irrogati al lavoratore, giudicati poi illegittimi, non essendo provata la sussistenza di un disegno persecutorio da parte del datore di lavoro.
La Corte d’Appello di Bologna respingeva l’impugnativa proposta dalla lavoratrice D.N. avverso la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia. La pronuncia, pur dichiarando l’illegittimità di un primo licenziamento intimato dalla società U. S.p.A già S. (società di fornitura di lavoro temporaneo a r.l. e ora S.P. S.p.A) e dei precedenti provvedimenti disciplinari irrogati (sanzioni pecuniarie) oltre che il conseguente riconoscimento di una parte di retribuzione non percepita, non qualificava come mobbing le condotte poste in essere dal datore di lavoro, ivi comprese quelle poi sfociate nell’applicazione dei provvedimenti disciplinari, stigmatizzati come nulli in giudizio. Veniva, pertanto, negato il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla dedotta violazione dell’articolo 2087 Codice Civile.
La Corte dichiarava illegittimo anche un secondo licenziamento per superamento del periodo di comporto, intimato in data 29 gennaio 2004 nell’eventualità di una possibile pronuncia di invalidità del licenziamento in precedenza comunicato.
A parere del Giudice territoriale, non risultava essere provata la violazione dell’articolo 2087 Codice Civile, “ciò con riguardo tanto al profilo oggettivo delle condotte denunciate, che tra l’altro avevano visto coinvolti tutti gli altri dipendenti, quanto a quello soggettivo, attinente all’intento persecutorio ritenuto elemento caratterizzante il mobbing”. La stessa Corte, dunque, non ravvisava nel comportamento della parte datoriale, alcun intento persecutorio, rientrante nella sfera del mobbing. Oltremodo, negava il configurarsi di un danno patrimoniale conseguente all’accertata illiceità dei provvedimenti sanzionatori.
La lavoratrice D.N. impugnava in Cassazione la sentenza lamentando come la Corte territoriale, sostenendo l’assenza di condotte illecite rientranti nella sfera del mobbing, considerava solo in modo parziale le condotte pregiudizievoli denunciate. In altri termini, la stessa Corte, erroneamente, condizionava il giudizio in ordine alla spettanza del danno non patrimoniale, omettendo di considerare come quest’ultimo fosse oggetto di una domanda autonoma, perché connesso all’illegittimità dei provvedimenti sanzionatori di cui la stessa Corte aveva confermato l’annullamento.
Di diverso avviso è la Cassazione, la quale sottolinea che “l'assunzione da parte della Società datrice nel breve volgere di un paio di mesi di iniziative sanzionatone poi risultate tutte illegittime, non rifletta soltanto l'esercizio, per quanto scorretto ed abnorme (ma si tenga conto delle considerazioni della Corte di merito, non censurate dalla ricorrente, in ordine alla abnormità della situazione di disordine amministrativo e organizzativo in cui versava la filiale di Reggio Emilia cui la ricorrente stessa era addetta, al punto da indurre la Società alla decisione del commissariamento della filiale medesima, poi interpretato con eccessivo e riprovevole rigore da chi era stato incaricalo di gestirlo), di un potere legittimamente facente capo al datore di lavoro ma valga di per sé a configurare in termini di mobbing la condotta datoriale medesima, tesi censurabile alla stregua dell'orientamento interpretativo di questa Corte, pur dalla ricorrente stessa richiamato, in base al quale si ha mobbing allorché sia ravvisabile da parte del datore o di un superiore gerarchico un atteggiamento sistematico e protratto nel tempo di ostilità verso il dipendente che si concreti in una molteplicità di comportamenti così da tradursi in forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica tali da indurre la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente (vedi, da ultimo, in questi termini Cass. n. 22535/2014, Cass. n. 898/2014, Cass. n. 3785/2009).”
Similmente, è da considerarsi infondata la censura relativa al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale, poiché, a parere della Suprema Corte, esso non deriva, come sostenuto da parte attrice, dalla mancata considerazione dell'essere la stessa oggetto di una domanda autonoma poichè riferita all’accertamento dell’illegittimità dei provvedimenti sanzionati irrogati dal datore di lavoro alla lavoratrice, ma dal rilievo, rimasto esente da censura, in ordine alla mancata presenza della prova di un ulteriore danno morale cagionato alla dipendente in conseguenza di esercizio illegittimo del potere disciplinare in capo al datore di lavoro.
In ossequio ai principi di cui sopra, la Cassazione rigetta il ricorso della lavoratrice.
Vincenzo Frandina
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Svolgimento del processo
Con sentenza del 23 agosto 2013, la Corte d’Appello di Bologna respingeva il gravame proposto da D.N. avverso la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che, mentre dichiarava l’illegittimità di un primo licenziamento alla stessa intimato il 18.9.2003 dalla datrice di lavoro U. S.p.A già S. società di fornitura di lavoro temporaneo a r.l. e ora S.P. S.p.A nonché delle precedenti sanzioni conservative, con riconoscimento delle quote di retribuzione non erogate in conseguenza delle stesse, disattendeva la prospettazione in termini di mobbing delle condotte, assunte come vessatorie, poste in essere dal datore, ivi comprese quelle che avevano dato causa agli annullati provvedimenti disciplinari, negando altresì il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla dedotta violazione dell’art. 2087 c.c., e, pertanto, dichiarava illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto che successivamente, in data 29.1.2004, la Società datrice aveva intimato alla stessa dipendente nell’eventualità di una decisione di invalidità del licenziamento in precedenza comunicato.
La decisione discende dall'aver la Corte territoriale ritenuto, pur in presenza del riconoscimento da parte dell’INAIL della natura professionale della lamentata malattia, non provata sia la violazione dell’art. 2087 c.c. - e ciò con riguardo tanto al profilo oggettivo delle condotte denunciate, che tra l’altro avevano visto coinvolti tutti gli altri dipendenti, quanto a quello soggettivo, attinente all’intento persecutorio ritenuto elemento caratterizzante il mobbing. da qui derivando la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato per superamento del comporto - sia il danno non patrimoniale conseguente all‘accertata illiceità dei precedenti provvedimenti sanzionatori.
Per la cassazione di tale decisione ricorre D.N., affidando ad un unico motivo l’impugnazione, rispetto alla quale la S.P. S.p.A. è rimasta intimata.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo, così rubricato "Omesso esame e valutazione di fatti decisivi per il giudizio - violazione e falsa applicazione di norme di diritto in punto di comportamento del datore di lavoro e delle regole "della civiltà del lavoro"; violazione e falsa applicazione dei norme: art. 1175, 2043, 2059, 2087, 2103 c.c., art. 185 c.p., artt. 2, 32, 41 Cost. artt. 115 e 116 c.p.c.", la ricorrente lamenta come il convincimento espresso dal giudice in ordine all’inconfigurabilità nella specie di una ipotesi di mobbing risulti inficiato da una considerazione solo parziale - per di più incentrata sul comportamento illecito dell’Area Manager incaricato della gestione della filiale di Reggio Emilia, da ritenersi, viceversa un mero tramite per l'attuazione di un disegno persecutorio direttamente riferibile alla Società datrice - delle condotte pregiudizievoli denunciate dall’odierna ricorrente ed abbia condizionato la pronunzia in ordine alla spettanza del danno non patrimoniale, con riguardo alla quale sarebbe stato omesso di considerare come lo stesso fosse oggetto di una domanda autonoma, in quanto connesso all’illegittimità dei provvedimenti sanzionatori di cui la stessa Corte aveva confermato l’annullamento, con estensione della doglianza ai riflessi di tali erronei pronunciamenti alla statuizione in ordine alle spese di lite.
Il motivo, nelle sue diverse articolazioni, risulta comunque infondato.
In effetti la parziale considerazione degli elementi di fatto che nell’originaria prospettazione dell'odierna ricorrente, qui ampiamente ribadita, dovevano valere a riflettere, nella reiterazione delle denunciate condotte illecite riferibili alla stessa Società datrice, la componibilità di un unitario disegno persecutorio da quella ideato ed attuato in danno di E. ricorrente, riconducibile alla fattispecie del mobbing, quale delineata nell’interpretazione che di essa emerge dalla giurisprudenza di questa Corte, non risulta affatto dimostrata, avendo in questa sede la ricorrente, diffusasi nella riproposizione dei singoli episodi, del resto dalla stessa dichiarati secondari, a suo dire pretermessi dalla Corte territoriale, del tutto omesso di evidenziare, con riguardo alla valutazione necessariamente sintetica delle allegazioni in fatto operata dalla Corte medesima, quelle carenze dell’iter logico giuridico dalla stessa Corte seguito nella formazione del proprio convincimento, che sarebbero state idonee a riflettere la denunciata omessa considerazione.
In sostanza, la ricorrente si limita qui a ribadire la propria tesi secondo cui l'assunzione da parte della Società datrice nel breve volgere di un paio di mesi di iniziative sanzionatone poi risultate tutte illegittime, non rifletta soltanto l'esercizio, per quanto scorretto ed abnorme (ma si tenga conto delle considerazioni della Corte di merito, non censurate dalla ricorrente, in ordine alla abnormità della situazione di disordine amministrativo e organizzativo in cui versava la filiale di Reggio Emilia cui la ricorrente stessa era addetta, al punto da indurre la Società alla decisione del commissariamento della filiale medesima, poi interpretato con eccessivo e riprovevole rigore da chi era stato incaricalo di gestirlo), di un potere legittimamente facente capo al datore di lavoro ma valga di per sé a configurare in termini di mobbing la condotta datoriale medesima, tesi censurabile alla stregua dell'orientamento interpretativo di questa Corte, pur dalla ricorrente stessa richiamato, in base al quale si ha mobbing allorché sia ravvisabile da parte del datore o di un superiore gerarchico un atteggiamento sistematico e protratto nel tempo di ostilità verso il dipendente che si concreti in una molteplicità di comportamenti così da tradursi in forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica tali da indurre la mortificazione morale c l’emarginazione del dipendente (vedi, da ultimo, in questi termini Cass. n. 22535/2014, Cass. n. 898/2014, Cass. n. 3785/2009).
Parimenti infondata si rivela la censura relativa al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale che certo non deriva, come vorrebbe la ricorrente, dalla mancata considerazione dell'essere questa oggetto di una domanda autonoma in quanto connessa all’accertamento dell’illegittimità dei provvedimenti sanzionati irrogati alla ricorrente dalla Società bensì, dal rilievo, rimasto esente da censura, in ordine alla mancata allegazione e prova di un danno ulteriore ed afferente alla sfera morale della dipendente che le sarebbe derivato dall’illegittimo esercizio del potere disciplinare da parte del datore, rilievo che, stante la coerenza con la ritenuta inconfigurabilità in termini di mobbing di quell’esercizio, si rivela legittimo, non potendo qui valere quegli elementi di fatto, anche di natura presuntiva, cui fa generico riferimento la ricorrente, che, qualora ricorra una ipotesi di mobbing, sarebbero idonei a sostenere la rilevabilità e la quantificazione anche in via equitativa di quel danno ulteriore.
Di qui la congruità anche della statuizione della Corte territoriale in ordine alla condanna alle spese di lite.
Il ricorso va dunque rigettato, senza attribuzione di spese a favore della S.P. S.p.A, rimasta intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d. P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
(Vincenzo Frandina)
LaPrevidenza.it, 19/03/2015