Diritto
Con il primo motivo, il L. deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di accordi nazionali di lavoro, degli artt. 2094, 2222 e 2698 c.c., e dell'art. 115 c.p.c., nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, assumendo che non sono stati valutati adeguatamente gli indici della subordinazione, quali assiduità, frequenza e continuità delle prestazioni, evidenziabili attraverso i time sheet, nonchè la circostanza dell'utilizzo esclusivo, da parte di esso ricorrente, di materiale consegnato in dotazione dalla BNL. Evidenzia come non sia stato oggetto di idonea considerazione il fatto che egli non si avvalesse di propri strumenti di lavoro o di propria organizzazione lavorativa e dell'ausilio di propri collaboratori, laddove erano indicative della natura subordinata del rapporto l'esclusività della prestazione resa per la BNL e le modalità di pagamento dei compensi, svincolati dal raggiungimento di risultati.
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di accordi nazionali di lavoro, del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69, degli artt. 2103, 2727 e 2729 c.c., dell'art. 115 c.p.c., nonchè omesso esame di fatto decisivo fatto oggetto di discussione tra le parti, sostenendo che, a fronte della pacifica assenza di un progetto, la Corte di appello ha violato i precetti normativi imposti dal D.Lgs. n. 273 del 2003, artt. 61 e 69, non pervenendo all'invocata conversione in rapporto di lavoro subordinato. Sostiene, altresì, che la BNL avrebbe dovuto osservare l'onere probatorio di dimostrare l'assenza di ogni coordinamento nell'attività prestata dal L. e l'estraneità del committente rispetto alla fase di realizzazione dell'opera convenuta. Rileva, a riprova del carattere di collaborazione coordinata e continuativa del rapporto, che la BNL aveva provveduto ad operare i versamenti dei contributi previdenziali alla Gestione Separata INPS, con modalità tipica dei collaboratori coordinati e continuativi, in totale assenza di i.v.a..
Con il terzo motivo, viene ascritta alla sentenza impugnata violazione e falsa applicazione di norme di diritto ed in particolare degli artt. 2103, 2727 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 115, 210, 241 e 347 c.p.c., e dell'art. 94 disp. att. c.p.c., osservandosi che, sin dall'atto introduttivo, il L. ha richiesto di essere ammesso a provare per testi le circostanze allegate, indicative della sottoposizione del predetto al potere direttivo dei propri superiori gerarchici (supervisione del Dott. F. e del Dott. E. e svolgimento delle mansioni su espresso incarico del F.). In ogni caso, secondo il ricorrente, il giudicante avrebbe dovuto sopperire alla ritenuta genericità mediante il ricorso ai poteri doveri istruttori d'ufficio. A fronte dell'acclarata natura subordinata del rapporto, il recesso intimato oralmente in data 22.3.2012 doveva essere qualificato quale vero e proprio licenziamento orale, come tale dichiarato inesistente o inefficace o nullo.
Va, preliminarmente, osservato, in ordine al primo motivo ed in particolare con riguardo al vizio motivazionale ivi dedotto, che non risulta l'indicazione specifica del fatto oggetto di discussione tra le parti, ma genericamente criticata, quanto alla deduzione del vizio motivazionale, l'attività valutativa del giudice del reclamo. Anche prima della riformulazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5, era costante l'affermazione che tale norma non conferisse alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento.
Nel caso in esame, la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l'11 settembre 2012. Trova, dunque, applicazione il nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 2, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti". A norma dell'art. 54, comma 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11.8.2012).
Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito, con riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una quaestio facti, che il nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consente tale denuncia nei limiti dell'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
In proposito, è stato, altresì, affermato che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. 8053/14 cit.). Il "fatto storico" censurabile ex art. 360 c.p.c., n. 5, non può, dunque, identificarsi genericamente con la mancata vantazione degli indici della subordinazione.
Ma, anche a prescindere da tale rilievo, l'inammissibilità del motivo discende dalla disposizione di cui all'art. 348 ter c.p.c., comma 5.
Nulla, invero, è detto nella normativa di riferimento per il contenuto dell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado introdotto dal reclamo e quindi vi è necessità di integrazione della disciplina pur speciale dettata dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 58 e 61. In ragione della ritenuta possibilità di integrare la disciplina del reclamo con quella dell'appello nel rito del lavoro, trovano conseguentemente applicazione, nel giudizio di cassazione, anche l'art. 348 ter c.p.c., comma 3, che prevede che, quando è pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso per cassazione nei limiti dei motivi specifici esposti con l'atto di appello, nonchè il medesimo art. 348 ter c.p.c., successivo comma 4, che prevede che, quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al terzo comma può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all'art. 360, nn. 1, 2, 3 e 4, (quindi con esclusione del vizio di motivazione di cui al n. 5).
Opera poi - per quel che qui interessa - anche la modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia "doppia conforme".
L'art. 348 ter, comma 5, prescrive che la disposizione di cui al comma 4 - ossia l'esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all'art. 360, comma 1, -, si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello che conferma la decisione di primo grado. Ossia il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme, come è stato nella specie.
Quanto alla censura relativa alla violazione e falsa applicazione di norme di diritto, deve osservarsi che requisiti determinanti ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato sono ravvisabili nell'assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro - potere che deve estrinsecarsi in specifici ordini (e non in semplici direttive, compatibili anche con il lavoro autonomo) -, oltre che nell'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo sull'esecuzione dell'attività lavorativa e nello stabile inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale del datore di lavoro; il rischio economico dell'attività lavorativa e la forma di retribuzione hanno, invece, carattere sussidiario (e sono utilizzabili specialmente quando nel caso concreto non emergano elementi univoci a favore dell'una o dell'altra soluzione), fermo restando che l'accertamento sull'esistenza o meno del vincolo di subordinazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici (cfr.
Cass. 11.9.2000 n. 11936, Cass. 3.3.2009 n. 5079, secondo cui in sede di legittimità è censurabile solo la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto - incensurabile in tale sede se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici - la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto nell'uno o nell'altro schema contrattuale, Cass. 17.4.2009 n. 9256, Cass. 9.3.2009 n. 5645). Nella specie, il giudice di merito, ha ritenuto correttamente qualificato contrattualmente il rapporto nell'ambito del lavoro autonomo, in relazione alla piena autonomia delle modalità di esecuzione di attività legata alla predisposizione del bilancio, con prestazione di attività in modo discontinuo e assai scarsa in alcuni mesi, pur in presenza di compilazione del time sheet, con indicazione delle ore di lavoro e dell'attività espletata, funzionale solo alla determinazione dei compensi, ed ha rilevato come il conferimento di incarichi sia pienamente compatibile con attività di natura autonoma, come anche l'estrema variabilità dei compensi, il cui andamento non rispettava un incremento progressivo. La Corte del merito ha anche escluso che le direttive impartite, cui si riferisce il ricorrente con riguardo, in particolare, al contenuto di messaggi di posta elettronica allo stesso inviati da funzionar" preposti a settori rispetto ai quali egli svolgeva funzione di supporto quale consulente autonomo, non erano di natura vincolante, ma di carattere tecnico, riguardando la definizione di criteri relativi alla corretta appostazione contabile di alcune voci di bilancio.
Analogamente, con riferimento a quanto argomentato nel secondo motivo con riguardo all'esclusione della collaborazione coordinata e continuativa pure in assenza di un progetto, negandosi rilevanza a tale elemento ai fini della presunzione di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, la Corte ha evidenziato, in modo del tutto condivisibile e con passaggi motivazionali immuni da incongruenze e salti logici, che non risultava chiarito il contenuto delle direttive ricevute nè i termini delle stesse in modo idoneo a consentire l'accertamento delle modalità con le quali il coordinamento fra le prestazioni rese dal L. e l'attività di BNL veniva di fatto realizzato. Il contratto di lavoro a progetto, disciplinato dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 61, prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale e determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione (cfr. Cass. 29.5.2013 n. 13394). Non è questa la figura contrattuale utilizzata dalle parti del rapporto di lavoro in questione, rispetto alla quale doveva compiersi la valutazione della divergenza del comportamento delle stesse dalla causa tipica del contratto.
L'argomento dei contributi previdenziali, oltre ad essere privo di specificità ed autosufficienza, è connotato dal requisito della novità, dovendo, peraltro, rilevarsi che il regime previdenziale e fiscale dei compensi attiene a profilo diverso da quello rilevante per la qualificazione del rapporto di lavoro e comunque privo di decisività ai fini considerati.
Infondato è, infine, il rilievo di cui al terzo motivo, non specificandosi il carattere di decisività delle circostanze dedotte delle quali il giudice del gravame ha ritenuto l'irrilevanza in ragione della equivocità delle stesse ai fini della prova della subordinazione. La censura si risolve, nella sostanza nella mera contrapposizione di una ricostruzione dei fatti a quella effettuata dal giudice del merito. Tra l'altro, i documenti di cui si denuncia l'omesso esame e che dimostrerebbero l'esistenza dell'asserito rapporto di natura subordinata sono riportati in ricorso con un sistema - la fotoriproduzione - che non soddisfa il requisito dell'autosufficienza espresso nell'art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, e la cui osservanza è prescritta a pena di inammissibilità, restando affidata alla Corte di cassazione verificarne la conformità a quelli facenti parte degli atti e operare la selezione delle parti rilevanti nella prospettiva di chi ha proposto il ricorso, ossia operare una individuazione e valutazione dei fatti, come se nel giudizio di legittimità fosse possibile la ripetizione del giudizio di fatto (in termini, Cass. 7.2.2012, n. 1716, 24.7.2013 n. 18020).
Quanto ai poteri officiosi, deve osservarsi che il potere officioso del giudice di ordinare, ai sensi degli artt. 210 e 421 c.p.c., alla parte l'esibizione di documenti sufficientemente individuati, ha carattere discrezionale e, non potendo sopperire all'inerzia della parte nel dedurre mezzi di prova, può essere esercitato solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile "aliunde", non anche per fini meramente esplorativi. Il mancato esercizio da parte del giudice del relativo potere, anche se sollecitato, non è censurabile in sede di legittimità neppure se il giudice abbia omesso di motivare al riguardo. (Cass. 24.3.2004 n. 5908, Cass. 23.2.2010 n. 4375, Cass. 16.11.2010 n. 23120).
Alla luce delle esposte considerazioni, ritenuta assorbita ogni altra censura, deve pervenirsi al rigetto del ricorso.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del L. e si liquidano come da dispositivo. Va applicata, ratione temporis e sussistendone i presupposti, la disposizione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, in Euro 5000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2014