SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 4 ottobre – 10 dicembre 2007, n. 25743
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Arezzo del 14-10-2003 G. M., operaio dipendente della F. s.p.a., impugnava il licenziamento comminato dal datore di lavoro per giustificato motivo soggettivo in data 28-5-2003, previa contestazione di essere stato "trovato in possesso, senza che ve ne fosse alcuna giustificazione, di 12 mascherine antipolvere di proprietà aziendale e fornite in numero di una a ciascun operaio che ne ha necessità a causa del lavoro che svolge". Il datore di lavoro nella stessa sede aveva contestato al M. alcuni pregressi comportamenti che avevano turbato l’ordine aziendale.
A sostegno del ricorso il lavoratore - non negando il fatto in sé - deduceva la palese sproporzione fra il comportamento accertato e la sanzione espulsiva, esclusa la rilevanza della recidiva.
La società resisteva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda.
Con sentenza del 27-4-2004 il Giudice del Lavoro del Tribunale di Arezzo rigettava la domanda sul presupposto che il fatto addebitato al ricorrente (aver fatto "man bassa" dei mezzi di protezione) aveva fatto venir meno la possibilità di utilizzo delle mascherine da parte degli altri dipendenti e che si fosse trattato di un atteggiamento provocatorio o irresponsabile tale da lasciare presumere analoghi comportamenti futuri.
Avverso la sentenza interponeva appello il M., censurando la pronuncia del primo Giudice nella parte in cui aveva ritenuto la particolare gravità del fatto, ricavando una prognosi futura fondata su mere illazioni.
La società resisteva al gravame e chiedeva il rigetto dell’appello.
La Corte di Appello di Firenze, con sentenza depositata il 18-1-2005, accoglieva l’appello.
In sintesi la Corte, valutato il fatto in base non solo alla nozione legale di giustificato motivo soggettivo ma anche alle ipotesi previste dal Ccnl di categoria, dopo aver escluso che vi fosse stata una "vera e propria sottrazione di beni aziendali", riteneva che si era trattato piuttosto di "una scorretta utilizzazione dei mezzi di protezione" cui era "certamente conseguito un disservizio" e giudicava l’episodio "di portata modesta, sicuramente meno grave di altri ricondotti alla fattispecie sanzionatoria conservativa da parte del contratto collettivo".
La Corte affermava inoltre che non assumevano rilevanza i dedotti precedenti disciplinari, essendo risultata provata soltanto una sanzione disciplinare irrogata il 15-2-2001, e non una pluralità di precedenti come ritenuto dal primo Giudice.
Per la cassazione della detta sentenza ha proposto ricorso la F. Prefabbricati s.p.a., con quattro motivi.
Il M. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la società ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, dell’art. 2119 c.c., dell’art. 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, in sostanza lamenta che erroneamente la Corte di Appello di Firenze "valutando parzialmente le evidenze testimoniali e omettendo ogni indagine su quelle documentali, ha concluso che il M. si era reso responsabile piuttosto che di sottrazione di beni aziendali di scorretta utilizzazione dei mezzi di protezione". "Così facendo", secondo la ricorrente, i Giudici di appello avrebbero "completamente trascurato la L. n. 604 del 1966, art. 3, - ed il concetto di giustificato motivo di licenziamento - in tutte le sue implicazioni, omettendo in particolare, di considerare la ripercussione sul rapporto della reale ed acclarata condotta del dipendente suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento" e quindi di incidere irrimediabilmente sull’elemento fiduciario.
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione delle stesse norme e dell’art. 1321 c.c. e ss., nonché vizio di motivazione, lamenta che erroneamente la Corte territoriale ha considerato sproporzionato il licenziamento valutando il comportamento alla luce di quelli previsti dal Ccnl "e assumendo l’esistenza di sanzioni conservative per comportamenti più gravi", in tal modo trascurando sia la non tassatività della elencazione contrattuale sia la particolarità intenzionalità della condotta del M..
Con il terzo motivo la società, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, nonché vizio di motivazione, lamenta in sostanza che la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto irrilevanti i "dedotti precedenti disciplinari", laddove erano stati prodotti "rapporti, atti di contestazione, diffide", dai quali emergevano comportamenti pregressi del M. (riguardanti diverbi con altri dipendenti talora passati anche a vie di fatto) comunque rilevanti ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione inflitta.
I primi tre motivi, che, strettamente connessi in quanto inerenti la medesima valutazione complessiva di proporzionalità della sanzione stessa, possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte inammissibili ed in parte infondati.
Come questa Corte ha avuto modo di precisare piu’ volte (v., fra le altre, Cass. 14-1-2003 n. 444, Cass. 16-5-2006 n. 11430, Cass. 24-7-2006 n. 16864) "in tema di licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo, ai sensi dell’art. 2119 c.c., o della L. n. 604 del 1966, art. 3, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso - istituzionalmente rimesso al Giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che l’inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell’onere su di lui incombente citata L. n. 604 del 1966, ex art. 5, deve essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria - durante il periodo di preavviso - del rapporto. A tale stregua, l’assenza di nocumento (o di serio pericolo di nocumento) della sfera patrimoniale del datore di lavoro, se può concorrere a fornire elementi per la valutazione di gravità del comportamento inadempiente, non è decisiva per escludere che possa dirsi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte".
Del resto, pure in generale è consolidato il principio secondo cui "la valutazione della gravità dell’inadempimento contrattuale è rimessa all’esame del Giudice di merito, ed è incensurabile in cassazione se la relativa motivazione risulti immune da vizi logici o giuridici" (v. Cass. sez. II 22-5-1998 n. 5114, Cass. sez. Lav. 26-7-2002 n. 11118).
In tale quadro va, quindi, inserita anche la valutazione del carattere "notevole" dell’inadempimento del lavoratore e quindi della proporzionalità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Detta valutazione, è poi sempre necessaria sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo, pur in presenza di ipotesi di comportamenti previste dal contratto collettivo (v. Cass. 27-9-2002 n. 14041), le quali hanno comunque valenza soltanto esemplificativa (v. Cass. 16-3-2004 n. 5372) e fanno salva la rilevanza delle condotte caratterizzate da elementi aggiuntivi (v. Cass. 29-4-1998 n. 4395).
Peraltro, con riguardo alla rilevanza relativa, nell’ambito della valutazione in esame, dei comportamenti pregressi del lavoratore questa Corte ha piu’ volte affermato che "il principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7, dello Statuto dei lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati, e collocatisi a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell’imprenditore" (v. Cass. 17-5-2003 n. 7734, Cass. 20-7-1996 n. 6523, Cass. 23-2-1998 n. 1925, Cass. 24-5-1999 n. 5044).
Infine, in generale, questa Corte ha più volte precisato che "la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al Giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata" (v. Cass. 9-4-2001 n. 5231, Cass. 15-4-2004 n. 7201, Cass. 7-8-2003 n. 11933).
Del resto, come pure è stato piu’ volte precisato,"il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa", (v., fra le altre Cass. 7-6-2005 n. 11789).
Orbene la sentenza impugnata, non incorrendo in errori di diritto e non andando in contrasto con i principi sopra richiamati, con motivazione congrua e priva di vizi logici, dopo aver ricostruito specificamente i fatti in base alle risultanze della prova testimoniale, li ha valutati nella loro completezza, sul piano oggettivo e soggettivo, alla luce degli elementi concreti emersi.
In particolare la Corte di Appello, richiamata la necessità, prevista dalla legge, di un "notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro", ha premesso che "non ogni inadempimento, dunque, comporta la risoluzione del rapporto, tutto dipendendo dalla gravità del fatto e dalla sua proiettabilità sul rapporto fiduciario".
Ciò posto la Corte, rilevato che le mascherine erano custodite all’interno dell’azienda ed erano state riposte nell’armadietto personale, ha escluso che si fosse trattato di una "vera e propria sottrazione di beni aziendali" (che del resto non avrebbe avuto alcun senso "stante la mancanza di valore di tali beni"), affermando che il comportamento del M. si era "risolto in una scorretta utilizzazione dei mezzi di protezione cui era certamente conseguito un disservizio a lui imputabile".
La Corte ha poi esaminato anche il profilo soggettivo, e sulla base degli scarsi elementi concreti emersi ha ritenuto che, contrariamente a quanto affermato dal primo Giudice, non era "possibile ipotizzare le ragioni di tale comportamento ed in particolare adombrare il dubbio" che si fosse "trattato di un atteggiamento intenzionale finalizzato a privare gli altri dipendenti dei mezzi di protezione", in modo da "valutare - infine - la potenzialità lesiva per il futuro del M.".
Alla luce, quindi, di varie previsioni del contratto collettivo di comportamenti puniti con sanzione conservativa, ritenuti senz’altro più gravi di quanto non fosse stato quello "certamente bizzarro (e per certi aspetti inspiegabile)" posto in essere dal M., la Corte ha valutato l’episodio di "portata modesta" e certamente non "ablativo della fiducia nel futuro lavorativo del dipendente".
Al riguardo, infine, per completezza sul piano soggettivo la Corte ha rilevato che dei "dedotti precedenti disciplinari" vi era la prova in atti di una sola sanzione disciplinare (irrogata il 15-2-2001), "la rimanente documentazione offerta in comunicazione dell’appellata riguardando mere segnalazioni o contestazioni cui non ha fatto seguito l’irrogazione di alcuna sanzione".
Pertanto, in particolare, con riferimento al primo motivo, va rilevato che la impugnata sentenza, non ha affatto trascurato la nozione di "notevole inadempimento" e neppure ha trascurato di considerare i profili soggettivi della condotta del M. e relativi alle ripercussioni sul rapporto fiduciario (alla luce anche della realtà aziendale e delle mansioni svolte), per i quali, in sostanza, a differenza del primo giudice, ha rilevato la insufficienza degli elementi probatori emersi.
In relazione, poi, al secondo motivo, la sentenza stessa, nella valutazione della proporzionalità, correttamente si è riferita anche alla elencazione contrattuale dei comportamenti e delle relative sanzioni, intendendola in senso meramente esemplificativo e rapportando il proprio giudizio comunque al complesso degli elementi risultati in concreto (sia oggettivi che soggettivi).
Con riguardo, infine, al terzo motivo va soltanto ulteriormente osservato che la Corte di Appello (non disconoscendo qualsiasi rilevanza di comportamenti pregressi) ha semplicemente negato che sussistesse una pluralità di "precedenti disciplinari", come invece ritenuto dal primo giudice, essendo emerse (al di là della sanzione irrogata il 15-2-2001) soltanto "segnalazioni e contestazioni" relative a fatti precedenti non sanzionati (circostanza, peraltro, sostanzialmente non smentita dalla stessa ricorrente).
Così respinti i primi tre motivi può esaminarsi il quarto, con il quale la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, e degli artt. 1218 e 1227 c.c., nonché vizio di motivazione, lamenta che la Corte di Appello, nel condannare la società al risarcimento dei danni pari a "tutte le mensilità omesse dalla data di cessazione del rapporto fino all’effettiva reintegra", "sembra non aver tenuto conto che il lungo tempo intercorso tra il licenziamento (28-5-2003) e l’ordine di reintegra (4-1-2005) non era al datore di lavoro imputabile, se non altro nel periodo protrattosi tra il giudizio di primo grado (conclusosi con l’assoluzione dell’azienda da ogni responsabilità), e quello d’appello, e che il dipendente aveva totalmente omesso di fornire dimostrazione, se non altro nel giudizio di appello, di un impegno positivo al compimento di attività idonee ad impedire l’aggravamento del danno"
Aggiunge la ricorrente che la prova dell’incolpevole comportamento del datore di lavoro, perlomeno dalla decisione di primo grado a quella di appello, "avrebbe dovuto indurre la Corte a ricondurre il danno alla "penale" prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, tenendo conto, in ultima analisi che, per i sei mesi successivi al licenziamento il dipendente aveva percepito, o, comunque, avrebbe potuto percepire - evitando così di aggravare il danno - l’indennità di disoccupazione, unitamente alla copertura assicurativa figurativa".
Anche tale motivo è infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato "ai fini della liquidazione del danno derivante da licenziamento illegittimo, la misura del risarcimento dovuto ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, - commisurato alle retribuzioni non percepite dal lavoratore per il periodo successivo al licenziamento - non può essere ridotta, in applicazione del principio di cui all’art. 1227 c.c., con riguardo alle conseguenze dannose riferibili al tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore, stante l’esistenza di norme che ne regolano l’iter, con la previsione di termini perentori, e che consentono ad entrambe le parti in giudizio di interferire nell’attività processuale" (v. Cass. 29-5-1995 n. 5993, Cass. 14-8-1998 n. 8003, Cass. 6-9-2000 n. 11742).
In specie Cass. 11-5-2005 n. 9898 ha precisato che le "conseguenze dannose discendenti dal tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore" non sono imputabili al lavoratore stesso, ex art. 1227 c.c., "tutte le volte che - sia che si tratti di inerzia endoprocessuale che di inerzia preprocessuale - le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la tutela dei propri diritti e per la riduzione del danno"
In tale quadro, de iure condito, non può assumere rilevanza neppure la circostanza del rigetto della domanda in primo grado e della riforma in appello, mentre infondata è la tesi di parte ricorrente secondo cui il lavoratore avrebbe dovuto fornire la prova del compimento di "attività idonee ad impedire l’aggravamento del danno".
Infine, in relazione all’asserito aliunde perceptum, che la impugnata sentenza non avrebbe considerato, va osservato che, in relazione alla indennità di disoccupazione, la stessa ricorrente lo assume soltanto in via ipotetica ed eventuale e che comunque neppure specifica quando, con quale atto e in che termini i fatti siano stati allegati al processo (sulla necessità di una rituale allegazione dei fatti, al di là della natura di eccezione in senso lato, v. Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099, Cass. 28-11-2001 n. 15065, Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131).
Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese, in considerazione dell’esito alterno delle fasi di merito, vanno equamente compensate tra le parti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.